Che cosa significa pensare

Pietro De Luigi on web

 

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Emanuele Severino:

CHE COSA SIGNIFICA PENSARE

da "Introduzione" (par. 10) a La struttura originaria,

edizione del 1981, pp. 90-95

 

         La struttura originaria muove anche un passo decisivo lungo il cammino che porta al tramonto il concetto occidentale di «pensiero». Per l’Occidente il pensiero è «gesto», «atto», «azione», «operazione». È anzi il gesto nella sua assoluta purezza e agilità. Il gesto è qualcosa che sopraggiunge (gestus è da gerere, «far sì che qualcosa sia compiuto»), cioè vien fatto, sospeso, rifatto, ripetuto, comandato. Il pensiero è così, come tale, la più precaria e instabile delle cose. Può anche pensare l’eterno, ma il pensiero è un atto che va e viene, si interrompe, è oggetto di volontà. «Noi» dicono gli abitatori dell’Occidente «vogliamo pensare». Anche quando l’idealismo intende il pensiero come «atto puro» o pensiero trascendentale, il pensiero conserva un tratto essenziale del gesto: l’agilità dell’autoproduzione. E nella metafisica classica e moderna, il pensiero di Dio è immutabile non in quanto pensiero, ma in quanto divino. L’immaginazione dei mortali associa il pensiero alla luce del lampo o di una serie di lampi nella notte del non pensare: una luce che può essere più o meno lunga, ma che ha la precarietà dell’intermittenza, dove si tende a identificare un primo e un ultimo termine della serie. Prima, l’oscurità che precede la nascita del mortale, poi l’oscurità della morte. Per la teologia cristiana, l’anima - il soggetto del pensare - è immortale, ma è creata nel tempo e viene sostenuta nella vita eterna dalla volontà di Dio. Senza questa volontà, anche l’anima si spegnerebbe, come ogni lampo.

         Al di fuori del nichilismo dell’Occidente, il senso essenziale del pensiero è l’apparire del Tutto. E l’apparire è eterno, come ogni ente. Ed è l’apparire della propria eternità. L’apparire eterno non è qualcosa che vada cercato lontano: è anzi il più vicino: anzi è la dimensione rispetto alla quale le cose possono essere dette lontane o vicine. In questo senso, è l’apparire attuale; ma non perché questa attualità abbia qualcosa a che vedere col senso occidentale dell’«atto». L’apparire attuale è l’apparire che appare: se è detto «attuale», la sua «attualità» indica il suo differire dall’apparire che rimane nascosto. (E quest’ultimo è proprio l’apparire dove il Tutto non appare nascondendosi - questo apparire nascondendosi è appunto l’apparire attuale -, ma appare nella ricchezza concreta e piena delle sue determinazioni: cfr. Essenza del nichilismo, «Il sentiero del Giorno», XVII sgg.). Questo attuale apparire del Tutto è l’apparire che da millenni e già da sempre e per sempre illumina il Tutto. Questo in cui appare il nostro mondo, e la storia dell’Occidente, e l’intera vicenda dei mortali. Questo, che non è opera degli uomini o degli dèi (e in cui appare l’alienazione dell’operare). I millenni della storia scorrono al suo interno.

         Nella Necessità di questo suo senso, il pensiero non è gesto, atto, opera, azione, ma il luogo in cui sopraggiunge ogni gesto, atto, opera, azione (i quali, nella loro essenza, sono la persuasione, la volontà, la fede di gestire, agire, operare). È anzi, il pensiero, il luogo in cui sopraggiunge la terra, ossia tutto ciò che può sopraggiungere. [Terra è, in Severino, termine tecnico]. In quanto è l’apparire di tutto ciò che appare, esso non sopraggiunge e non si allontana, perché il sopraggiungere e l’allontanarsi significano l’entrare nell’apparire e l’uscire da esso. Il pensiero non è il gesto e il lampo, ma la ferma volontà del cielo, in cui procedono e si alternano le costellazioni dell’essere, gli eterni astri del «Sentiero della Notte» (gli eterni astri della vicenda del mortale e della storia dell’Occidente) e, se è necessario che si manifestino, gli eterni astri del «Sentiero del Giorno». E anche ciò che nel linguaggio dei mortali viene chiamato «i nostri pensieri», «i nostri sentimenti», «i nostri stati d’animo», «i nostri atti di volontà» sono essi stessi astri eterni dell’essere, che entrano ed escono dalla volta eterna dell’apparire, ossia dal cerchio stabile in cui consiste il senso autentico del pensiero. Non guidati o voluti da uomini o dèi (quindi nemmeno dal dio di Gesù), appartengono alla terra, che è accompagnata dal Destino attraverso la volta dell’apparire. La volta del cielo, come lo stabile suolo, non ha alcuna «agilità» - non è un agere, un «mettersi in movimento», uno spiccare il volo. Ogni volo si compie al suo interno, e non è «spiccato», cioè distaccato dal Destino che conduce nell’apparire gli astri eterni dell’essere.

         Ma la necessità che questo sia il senso autentico del pensiero è la necessità che il pensiero sia l’apparire della struttura originaria della Necessità. Uno dei tratti emergenti di questo libro è che il pensiero è struttura - in un senso del tutto estraneo allo strutturalismo (anche per motivi cronologici: La struttura originaria viene pubblicata nello stesso anno della Antropologia strutturale di Lévi-Strauss). È attraverso un’ispezione empirica, cioè un’operazione scientifica, che lo strutturalismo perviene al rilevamento di certe strutture costanti nel comportamento dei gruppi sociali. Ne La struttura originaria il pensiero, in quanto apparire, è struttura, perché nella nella struttura originaria della Necessità l’apparire include originariamente sé stesso nel proprio contenuto (ossia nella totalità degli enti che appaiono). La Necessità non è tale senza questa originaria autocomprensione dell’apparire (cfr. cap. II, parr. 11-23). Appunto a questi paragrafi de La struttura originaria si riferisce Essenza del nichilismo («La terra e l’essenza dell’uomo», XVII). Autocomprensione o «autocoscienza».

         Ma l’autocoscienza idealistica è il risultato del processo di autorealizzazione dell’essere. Al di fuori del nichilismo dell’interpretazione idealistica del pensiero, l’autocomprensione dell’apparire non è un movimento che ritorna su di sé, un gesto che indica un gesto già compiuto, un atto che cresce su di sé, ma è un immutabile stare, un’iride eterna. Questa iride eterna che è l’apparire attuale. Nella storia dell’Occidente, se il pensiero è questo pensiero attuale, non è pensiero immutabile (la stessa eternità del pensiero è il processo eterno di creazione e distruzione delle cose); e, se il pensiero è immutabile, non è questo pensiero attuale. Nella struttura originaria della Necessità il pensiero, in quanto apparire, è l’iride ferma in cui si illumina lo spettacolo eterno della Necessità e in cui sopraggiunge l’eterno astro della terra e dell’isolamento della terra.

         Il linguaggio che parla della struttura originaria non la circonda e non la raggiunge dall’esterno. Questo linguaggio che va e viene, che parla della struttura originaria, ma smette anche di parlarne e torna ancora a parlarne e così via in un’alterna vicenda, è esso stesso uno degli enti della terra che si inoltrano nella volta dell’apparire - un ente che in certo modo accompagna tutti gli altri enti, mettendoli sul piedestallo del nome. Non è che il linguaggio ci faccia rivolgere alla struttura originaria, ce ne distolga, ci faccia tornare a pensarla. Non è che, con esso, si incominci, si smetta e si torni a pensare la Necessità: sono le parole del linguaggio, quindi del linguaggio che parla della struttura originaria, che ritornano all’interno dello stesso pensiero, cioè all’interno dell’apparire della struttura originaria. Non è che la parola si faccia incontro ad essa, dall’esterno, la raccolga e la metta su di sé: anche la parola, quindi anche la parola che parla dell’originario, è un eterno astro dell’essere che entra ed esce dal cerchio eterno dell’apparire dell’originario. L’originario vede in sé, vede sopraggiungere in sé il linguaggio da cui è parlato.

         È quindi l’originario stesso che vede, in , come autocomprensione. Questo vedersi è l’apparire dell’apparire di sé, ossia è la coscienza dell’autocoscienza. Il linguaggio che, nel capitolo II, esprime l’autocomprensione dell’apparire, sopraggiunge appunto all’interno della coscienza di questa autocomprensione. L’iride ferma dell’apparire è dunque struttura, nel senso che è l’apparire dell’apparire dell’apparire. Ma i tre sono il medesimo apparire: questo è quanto viene determinatamente chiarito nel capitolo II (dove tuttavia l’accento è messo sulla medesimezza che si costituisce nell’autocomprensione dell’apparire) e nel passo succitato di Essenza del nichilismo. Proprio perché è necessario che l’apparire sia originariamente apparire di sé, il cerchio dell’apparire contiene sé stesso, ma non come un cerchio di area maggiore che ne contenga uno di area minore: l’apparire (sia A2) che appare è lo stesso apparire (sia A1) in cui esso (cioè A2) appare. E l’apparire (sia A3) di questa identità con sé dell’apparire è lo stesso apparire identico a sé: A3 = A= A1. Ciò vuol dire che A3 non è una riflessione (un atto di riflessione) che sopraggiunga assumendo come contenuto l’identità di A1 e A2: A3 è lo stesso A2 e cioè è lo stesso A1.

         Ma ciò non significa che esista solo uno di questi tre termini: appunto perché l’apparire non è soltanto il comprendente , ma anche il compreso, cioè esiste sia come comprendente sia come compreso; sì che, in questo senso, l’identico si distingue. E questo distinguersi, a sua volta, appare, è a sua volta compreso dall’apparire (dall’apparire, cioè, su cui si fonda questo parlare del distinguersi, e che si distingue, in quanto comprendente il distinguersi, dai distinguentisi). Proprio perché l’apparire è tale, ossia apparire di qualcosa e quindi, necessariamente, di sé, il riferimento a sé è, insieme, l’identità e la differenza dei termini del riferimento. Il riferimento implica la differenza, il riferimento a implica l’identità. [...]

         È in questa ferma unità triplice dell’apparire che si inoltra l’eterno astro della terra. L’unità triplice dell’apparire è l’eterna volta intramontabile del pensiero, in cui appare l’eterno astro intramontabile della Necessità e in cui sorgono e tramontano gli astri eterni della terra.

         Se nel capitolo III di questo libro è pienamente esplicito che l’apparire dell’apparire non può essere, in quanto tratto della struttura originaria della Necessità, un libero atto di riflessione che venga operato su un precedente riflettere e che possa quindi diventare oggetto a sua volta di una nuova riflessione, nel capitolo V si considera il senso di questa riflessione, quando essa sia intesa non come ciò cui è affidato il costituirsi della struttura originaria della Necessità, ma come una possibilità (parr. 31-34). Globalmente, il discorso che questo libro conduce su questo punto è che se l’apparire della Necessità è la struttura della ferma unità triplice dell’apparire (cap. III), tuttavia è possibile una riflessione su questa struttura, e anzi una «serie» di riflessioni (cap. V, parr. 6-16). È in questa seconda parte del discorso che ne La struttura originaria ricompare quel concetto del pensare come «gesto», «atto», che, pure, è proprio il senso di fondo di questo libro a mettere radicalmente in questione.

         [...]

         Lo sviluppo della serie possibile, in cui l’unità triplice dell’apparire appare e in cui quest’ultimo apparire a sua volta appare, e così via, è allora necessità che non sia uno sviluppo della riflessione sull’unità triplice dell’apparire dell’originario, bensì uno sviluppo dell’analisi del contenuto di tale unità. Non sopraggiunge il nuovo gesto che comprende all’interno di sé ciò che era la totalità dell’apparire, essendo esso, ormai, la nuova totalità, che potrà essere a sua volta ricompresa in un gesto più ampio; ma è all’interno della ferma volontà dell’unità triplice dell’apparire che si sviluppa l’analisi di ciò che questa volta racchiude. Non una nuova luce (o una serie di nuove luci sempre più estese) sulla luce dell’originario, non nuovi cerchi sempre più ampi tracciati attorno ai tre cerchi identici e reciprocamente comprendentisi dell’unità triplice dell’apparire; ma lo sviluppo dell’analisi della struttura interna della ferma luce dell’originario, cioè dei tre cerchi dell’originario. Non è la volta dell’apparire che si sposta più in alto o è ricompressa in una volta più alta, ma sono i tratti del contenuto da essa protetti che si fanno più articolati e più ricchi. Se infatti nella struttura della Necessità, l’identità di A1, A2, A3 esclude ogni regressus in indefinitum nell’autofondazione dell’originario, l’analisi può rilevare che in tale identità, strutturantesi come coscienza dell’autocoscienza, la coscienza che è contenuto dell’autocoscienza è la stessa coscienza dell’autocoscienza, sì che la coscienza dell’autocoscienza è coscienza della coscienza che ha come contenuto la coscienza dell’autocoscienza. In questo modo, accade certamente uno sviluppo, ma uno sviluppo che non è della riflessione dell’apparire sull’apparire dell’originario, ma è sviluppo dell’analisi che mostra come la coscienza della coscienza che ha come contenuto la coscienza dell’autocoscienza è lo stesso della coscienza dell’autocoscienza. L’analisi può svilupparsi senza limiti, ma proprio per mostrare come la molteplicità dei termini che sempre più numerosi sopraggiungono nell’originario, è lo stesso dell’unità triplice dell’apparire dell’originario. Se lo sviluppo della serie viene inteso non come sviluppo della riflessione sull’originario, ma come sviluppo dell’analisi del contenuto dell’originario (o se per «sviluppo della riflessione» si intende lo sviluppo dell’analisi di tale contenuto), allora il capitolo V si libera della contraddizione sopra rilevata.

 

(E. Severino, «Introduzione» a La struttura originaria, nuova edizione ampliata del 1981, pp. 90-95. Questa «Introduzione» è datata “Primavera 1979-Primavera 1981”, ed offre un'interessante rivisitazione critica all'impianto complessivo de La struttura originaria, risalente al 1958)

 

 

 

Cfr. di G. Barzaghi "Il soliloquio sul divino"

e la proposta sull'Imago Trinitatis nell'uomo in Oltre Dio

Cfr. I distici di Silesius

 

 

 

 

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