Il declino, la forza e la bellezza

Pietro De Luigi on web

 

Home ] Su ] Enoch Arden ] La Terra di Hurqalya ] Philosophia ] Personale ] Mappa ] Contatti e Links ]

 

Il declino, la forza, la bellezza

(appunti in subbuglio per un forum su Enoch Arden)

Pietro De Luigi, inverno 1999

Tennyson

Sfrutta, senza malizia, i valori cari all’establishment borghese con espedienti collaudati. Con convinzione e originalità riesce da vero poeta a combinare gli elementi narrativi e stilistici con meraviglioso equilibrio. Sa evitare la scontatezza ecc. Pensa alla sua robustezza, e freschezza: ci sono elementi del trascendentalismo americano? (Emerson, Whitman, Thoureau, ecc. Senza esagerazioni, ma Tennyson mi sembra uomo naturale e virile più di quanto non appaia.)

Trovata questa! Da Walt Whitman: Tennyson può apparire un po' querulo ed affettato, ma è più virile e naturale di quanto non appaia! …. "his glove is a glove of silk, but the hand is a hand of iron”. Lo ammirava.

Tennyson è un grande word painter, pittore di parole (o scrittore d’immagini) forse il più grande word painter dell’ottocento inglese, se non di tutti i tempi (Rhoda L. Flaxman, su internet). Che significa? Estesi passaggi di descrizioni visive la cui tecnica ricorda quella pittorica, ma con un effetto che noi moderni potremmo chiamare cinematico (o cinematografico), che implica uno spostamento da un elemento al successivo con la certezza di una particolare prospettiva o "punto di vista" (quello della telecamera), in una specie di “narrativa del paesaggio” (narrative of landscape).

Il suo inquadramento nell’epoca vittoriana grava su di lui come un’ipoteca un po’ pesante. Epoca vittoriana come affermazione della borghesia, apogeo dell’espansione coloniale, trionfo di ideali filantropici e umanitari che mal dissimulano un sottofondo di ipocrisia, di censure, etica bigotta e pruriginosa (che rivestiva le gambe del pianoforte!), ecc… Spesso Tennyson rappresenta nel giudizio critico (un po' sorpassato) solo il riflusso dagli slanci del primo vero romanticismo; la sua poesia nostalgica e sentimentale, allineata al sistema, è vista come culto manieristico dei valori borghesi, del decoro, della castità, dell’intimità domestica ecc.

Ma non si coglie così la sua vera essenza. Inequivocabilmente Tennyson è vero bardo del suo tempo, ma di quest’epoca esprime anche le tensioni profonde, i conflitti, le lacerazioni interiori, le contraddizioni. Lo fa con un’arte semplice e diretta che guarda al futuro (da qui l’apprezzamento enorme da parte dei preraffaelliti e anche, come vedremo di Strauss) e soprattutto con una lucidità e una consapevolezza culturale e filosofica che pochi gli hanno riconosciuto. E’ la coscienza psicologica (come Dickens quella sociale) di quest’epoca.

Egli rielabora e compone istanze molteplici e spesso divergenti (notevoli interessi scientifici, naturalistici – anticipò idee evoluzionistiche -, forti istanze mistico-religiose, dissensi con l’ortodossia, ecc.) e lo fa con profondità e acume. Solo che le sue opere sanno dissimulare grandi tematiche dietro una grande semplicità. Da notare l’importanza del simbolismo (tipico già dell’estetica decadente); e il simbolismo spesso rivela gusto per le analogie, il pensiero profondo, oseremmo dire già psicanalitico. In Enoch Arden c’è una compattissima intelaiatura simbolica tutt’altro che evidente di primo acchito, ma inoppugnabilmente intenzionale. Verlaine, che si accinse a tradurre In Memoriam ne fu dissuaso perché dovette riconoscere che Tennyson era poeta “troppo nobile e colto; e anche laddove doveva essere accorato nascondeva troppe reminiscenze”. Non si tratta però, come vedremo, di reminiscenze, citazioni, simbolismi fini a se stessi (non è “art pour l’art”), ostentazione di perfetto dominio tecnico o raffinatezza stilistica, ma semmai di interesse per la mitizzazione del reale.

Strauss

Epigono della grande tradizione romantica. O erede? (Domanda interessante). Uomo dalle molteplici sfaccettature. Piuttosto reticente ad esprimere se stesso e a “esporsi” sentimentalmente (altri in arte lasciano apparire, anche impudicamente, il loro “midollo”). Orientato a una concezione “espressiva” della musica. Che significa? La concezione espressiva si rifà al romanticismo come quella formalista (di Hanslick) si rifà al classicismo. Romanticismo, Schopenauer, Wagner, Nietszche, Hausegger VERSUS Classicismo, Hanslick, Brahms, ecc. Per Hanslick (nella cui estetica Strauss fu instradato inizialmente dal padre, antiwagneriano) “il bello non ha fine esterno, poiché è forma, soltanto forma” e: “la musica è forma che si muove mediante suoni”. Hanslick trovava detestabile che Wagner pretendesse di “esprimere” qualcosa mediante la musica; velleità, questa, che nuoceva alla forma, la corrodeva. Ma attraverso Ritter (musicista imparentato con Wagner, che diverrà guida spirituale del nostro giovane compositore), Strauss approda ad Hausegger. Per Hausegger: è come se nei suoni il mondo ci si aprisse per un’altra via. Dice Hausegger: “Mediante il senso della vista l’uomo entra nel mondo, mediante il senso dell’udito il mondo entra nell’uomo, scrive Oken” (Questo Oken è filosofo schellinghiano). Il pittore esce da sé, guarda, studia e rappresenta il mondo. Il compositore lo assimila in sé, se ne fa interprete, lo “esprime”. Il mondo esprime in musica la sua essenza, smascherata dalle apparenze, e la esprime in nuda verità. Arte è vera religione, immanentistica, con dichiarazione di fede darwiniana: l’evoluzione biologica porta l’essenza del mondo - la volontà di Schopenauer - ad esprimersi sempre più e sempre meglio. Nell’uomo, nelle arti l’essenza diviene consapevole di se stessa e perciò si vede, si autoesprime, da cieca si fa consapevole e si rivela. L’artista non segue più il suo volere o ciò che può. Fa ciò che “deve”. Scopre in sé il divenire libero della volontà – essenza del mondo che gli è indipendente e che si autodetermina. “Sotto l’influsso di quel divenire, l’artista è soltanto l’organo di un’entità completamente diversa dalla sua essenza individuale. Quell’entità lo sovrasta. Allora, è come se da lui parlasse quel dio che ciascuno in modo diverso, si raffigura. L’artista è divenuto produttivo” (dove produttivo, poietico, è evidentemente affine a poetico, espressivo, in senso metafisico). Il suono è anche gesto acustico (ottenuto con mezzi inusuali, come le esagerazioni mimiche), per Hausegger. Ciò alimenta ulteriormente l’idea “espressiva”, teatrale della musica. Tutte idee già romantiche. Musica organo della filosofia. Strumento semantico per eccellenza, la musica potenzialmente racchiude la pienezza di tutte le significazioni. Siamo agli antipodi della musica come evasione, decorazione ornamento di corte o divertimento. E agli antipodi della musica come forma in sé conchiusa, della cosiddetta musica pura o assoluta. (Ma qui il discorso si complica perché per Nietzsche la musica più pura sarebbe quella tragica e dionisiaca: per intenderci: il Tristan di Wagner). Da qui la musica a programma. (Dizione riduttiva ma chiara).

[Digressione possibile: parabola della musica classica con apoteosi nel Sette-Ottocento: dal dramma teatrale (da cui l’idea dei temi–personaggi e la forma stessa della sonata classica) al cinema. (Periodo di gloria effimera? Tanto più gloria quanto più effimera - e preziosa. L’epoca d’oro della musica coincide con la sua apoteosi filosofica (da Hoffmann, Tieck, Novalis, Schelling a Schopenauer). Espressività della musica e rilevanza del suo contenuto nell’Ottocento (cfr. Wagner) [simile all’importanza della pittura nel rinascimento italiano. Il pittore, allora, come vero interprete, bardo del suo tempo]. Ma appunto con il cinema, che di fatto è la realizzazione dell’utopico teatro invisibile sognato da Wagner, la musica acquista una semantica accentuatissima, sebbene funzionale, e perciò perde di autonomia. Quale destino per la musica?]

Strauss pur seguendo Hausegger si rende anche conto che l’eccesso di semantica finisce col nuocere al segno (al suono; quindi alla musica). La musica rischia la banalità con l’uso degli “espedienti”. Sono il genio, l’intuizione e il talento del musicista che rimediano in anticipo a questo rischio, insieme a onestà, capacità di lavoro, e - non ultimo – la sua filosofia. C’è modo e modo di significare, anche quando la musica si lega alla parola o alle immagini, come in teatro e nel cinema. E in Strauss la forma scelta (il poema sinfonico, con un programma) è probabilmente, oltre che un movente per l’ispirazione, anche un pretesto per evadere dalle forme canoniche – sinfonia, concerto, ecc. - sentite ormai come obsolete - senza cadere nel puro vuoto formale.

Proseguo con una digressione metafisica che solo apparentemente esce dal seminato. Infatti ci riconduce a Tennyson facendoci chiudere il cerchio.

Strauss ha appena composto Also sprach Zarathustra, Si lega a Nietszche, per poco, ma significativamente. Attratto dall’anticristianesimo e dalla sete – tutta sana, robusta – di trasgressività, provocazione, anticonformismo. «[…] ci si accorge che, almeno in alcuni momenti cruciali, [tra Strauss e Nietzsche] esistono coincidenze folgoranti. La dinamica, la sovrabbondanza, l’immensità del soffrire come del tripudiare, persino ciò che tanti anni prima , in Die Geburt der Tragödie (La nascita della tragedia), Nietzsche aveva chiamato “il pessimismo della forza”: queste le fonti irradianti della seduzione. Crediamo che il vitalismo in sé, più che la figura del superuomo, abbia suggerito a Strauss le più corpose immagini musicali» (Strauss, di Q. Principe, p. 567). Tutto ciò potrebbe apparire l’opposto di Tennyson e di Enoch Arden, secondo il cliché che ne fa un’apologia dei valori costituiti (non del tutto, forse, o non in modo banale. Non quelli che Nietzsche detesta, comunque, cioè i valori del risentimento borghese).

Perché quest’esperimento, un melologo su Tennyson dopo un Don Juan e uno Zarathustra? Un omaggio a Possart (dedicatario dell’opera, famoso attore e primo interprete di Enoch Arden)? La ricerca di un facile successo con un tema di gusto Biedermeier? Non è credibile. Il successo certamente ci fu, perché la storia piacque, ma anche perché c’era valore. E letterariamente e musicalmente: valore era nella concezione dell’opera, nel suo contenuto, come  anche nella forma scelta, il melologo (già meno diffuso nella seconda metà Ottocento rispetto alla prima: ma il nostro musicista si riorienta di nuovo al melologo perché cerca forse qualcosa come il teatro invisibile wagneriano. Di fatto il musicista nel nostro secolo diventerà, epocalmente, per lo più un commentatore di sceneggiature cinematografiche. Non che queste siano invisibili, ma consentono una visibilità scevra di tutte quelle degradazioni - costumi, trucchi, aspetto insopportabile dei cantanti, ovvii limiti spazio-temporali del palcoscenico, ecc. – inevitabili nel teatro d’allora). E Strauss era alla ricerca di forme nuove; scriveva: “Nuove idee devono andare alla ricerca di nuove forme…”. E ancora: Non vedo perché noi, prima di aver messo a prova le nostre forze per scoprire se sia possibile creare in piena autonomia e magari far compiere all’arte un altro piccolo passo avanti, dovremmo subito rassegnarci all’epigonismo e collocarci in partenza in questa condizione di epigoni…”. La fortuna di quest’opera, (che spinse Strauss di nuovo sulla strada del melologo pochissimo tempo dopo), ha ragioni intrinseche. E una critica seria deve illustrare i motivi che stanno a monte della scelta del soggetto. Che significato ha Enoch Arden nell’evoluzione, nella maturazione del compositore Richard Strauss? Come tenere insieme Zarathustra (1896) ed Enoch Arden (1897), situati, per lo meno apparentemente, agli antipodi di una ipotetica scala di valori, sulla quale Zarathustra, i precedenti, provocatori Don Giovanni (1888), Macbeth (1890), I tiri burloni di Till Eulenspiegel (1895), e la successiva Salomé (1905. Opera teatrale, su testo di Oscar Wilde, testo veramente emblematico di un orientamento assai diverso dal pudicissmo Enoch Arden) in qualche modo si apparentano? Ripeto, non è serio considerare Enoch Arden una concessione ai gusti dell’epoca. Entriamo nel vivo delle cose e cerchiamo di capire.

Lo Zarathustra esprime una verità metafisica fondamentale. Parlando al sole nascente Zarathustra gli dice che anche lui, ormai, come il sole, desidera tramontare, «come dicono gli uomini ai quali voglio discendere. […]. Ecco! Il calice vuol tornare vuoto, Zarathustra vuol tornare uomo. – Così cominciò il tramonto di Zarathustra.» Dove l’essere ha inizio, là l’essere stesso esprime già, oltre che un rigoglio, anche un declino, e il declino è un’assenza - è consustanziale a un’assenza - perché si definisce al negativo come una mancanza di essere (quella dell’essere che c’era prima e viene a mancare. Ma anche, generalizzando, assenza, distanza, mancanza del parmenideo (o platonico) “essere che non può non essere” - o Essere -, quello che fa essere ogni essere, e viene evocato o nascosto come assente - oltre che come presente - in ogni inizio dell’essere); quella perpetua assenza che nel sentimento del bello è la “testimonianza di una malinconia irritata, di una  sollecitazione dei nervi, di una natura esiliata nell’imperfetto, che vorrebbe possedere immediatamente, su questa terra stessa, un paradiso rivelato” (E.A. Poe)[1]. Quest’assenza si può già interpretare come “tramonto” dell’essere, o, per dirla platonicamente, come il relativo non essere di questo nostro essere, il quale si può definire come costante “tramontare”.

Ma lo sprofondare nella perdita simultaneo ad ogni mutamento, e quindi ad ogni inizio (tipico dell’essere mondano), è splendore, proprio come ogni tramonto. Ecco perché Zarathustra vuole tramontare. Nietzsche colse quest’idea in tutta la sua portata. La potenza del declino, con senso di ferrea, intransigente necessità, anche nell’avvio; e quindi la sottolineatura sulla caducità e sulla morte (tema già esistenzialista): la morte di Dio (cfr. già Wagner con Il crepuscolo degli dei) ma soprattutto la morte dell’uomo, o dell’eroe (l’uomo–dio), il quale proprio tramontando lancia un ponte verso l’oltreumano (il Superuomo) [2]. Nietzsche e Strauss molto lucidamente riescono a vedere nello splendore della fine un’essenza e quindi ne colgono – in qualche modo - l’intramontabilità[3]. Alla nostalgia qui si aggiunge qualcosa di nuovo: si aggiunge qualcosa che non è né abbandono (rimpianto morboso o malinconia irritata) verso il passato, né angoscia per il futuro, ma energia, energia cosciente di sé di un declino che accetta, e addirittura gioisce di essere consumazione e perciò splendore. Strauss intuisce il nucleo semantico dello Zarathustra di Nietzsche, e ne libera i significati di vigore, vitalità, di volontà di potenza (tutt’altro che rassegnazione o debolezza), pur rispettando le associazioni spontanee di decadenza. La coscienza estetica, sfuggita alle remore del moralismo, riesce ancora, come nella grecità (si pensi allo splendore degli eroi omerici), a raccogliere un nuovo tipo di immagine del bello, pieno di fulgore, di salute anche nell’inevitabile kenosis, e non suo malgrado. Un senso di onnipotenza, in Strauss anche di autocompiacimento dell’eroe che, morente, sa di eludere la morte (Morte e trasfigurazione!, del 1889). E’ tema già schopenaueriano che poteva accogliere nel suo seno due eroi diversi come Zarathustra e Enoch. La determinazione di Enoch, proprio la sua forza - tacere ad Annie il suo ritorno e non farle più vedere il proprio volto, per evitarle rimpianti[4]- può allora trovare un punto di contatto con lo Zarathustra che vuole vuotare il proprio calice e riesce a riversare nella danza, nel gioco e nel riso la consapevolezza del suo essere effimero. Cogliamo in entrambi i modi di due opere, per altri aspetti profondamente diverse, connotati comuni. Il declino, la forza e la bellezza.

Soffermiamoci ora sulla bellezza. Essa, ci spiega Platone nel Fedro, tra le idee è l’unica che sappia tralucere nel sensibile, e si lascia cogliere percettivamente in ciò che è bello, che esprime quindi forza, seduzione, potenza, ma, poiché sensibile, muore, declina, incatenato com’è all’effimero, destinato alla fine. E’ bello ciò che splendendo si fa notare; ecco che c’è, meraviglia!, e adesso già non è più.

“Per quanto riguarda la Bellezza, poi, come abbiamo detto, splendeva fra le realtà di lassù come Essere. E noi, venuti quaggiù l’abbiamo colta con la più chiara delle nostre sensazioni, in quanto risplende in modo luminosissimo. Infatti per noi la vista è la più acuta delle sensazioni che riceviamo mediante il corpo. Ma con essa non si vede la Saggezza, perché giungendo alla vista susciterebbe terribili amori, se offrisse una qualche immagine di sé, né si vedono tutte le altre realtà che sono degne d’amore. Ora invece solamente la Bellezza ricevette questa sorte di essere [anche quaggiù] ciò che è più manifesto e più amabile.” (Platone Fedro, 250 c-e).

Visibilità, certo, ma con lo scotto della fugacità. Nonostante questo Dostoevskij affermava che il mondo sarebbe stato salvato dalla bellezza. Strauss, epigono ma anche erede, in positivo, della tradizione romantica, sta di fronte al trapassare dei valori e alla “decadenza” di stili, contenuti e forme dell’arte, con lucida consapevolezza, ma senza rimpianti. Sulla scia di Hoffmannstahl, che gli fu amico e collaboratore assai congeniale, cercò la profondità in superficie, proprio dove la profondità riluce, in quanto Bellezza. (Con ciò riprendendo in parte la vecchia lezione classicista di Hanslick. - Platone sarebbe stato d’accordo: la forma, l’eidos, l’idea, è già bellezza!) (Sulla profondità in superficie cfr. Nietzsche nella prefazione alla seconda edizione de La gaia scienza «Oh, questi greci! Loro sì sapevano vivere; per vivere occorre arrestarsi animosamente alla superficie, all’increspatura, alla scorza, adorare l’apparenza, credere alle forme, ai suoni, alle parole, all’intero Olimpo dell’apparenza. Questi greci erano superficiali – per profondità»). Questo il motivo per cui la semantica straussiana, per quanto cospicua, non diminuisce mai l’efficacia naturale, spontanea dei suoni, anzi. La profondità dei significati è ottenuta con una coscienza assoluta e intensa del presente (Q. Principe), con l’intelligenza dei sensi tenuta vigile a percepire quanto più si possa delle immagini sonore con cui la Bellezza seduce. E solo la bellezza, poiché visibile, innesca la reminiscenza delle realtà che non solo nutrirono l’anima nella platonica Pianura della Verità, ma che, soprattutto, continuano a nutrirla anche quaggiù. Più o meno questa, suppongo, la religione di Strauss. Parafrasando Quirino Principe (lucidissimo interprete del nostro compositore), diremo che Strauss ribalta, capovolge la fenomenologia della temporalità: l’effimero diventa l’indistruttibile. E non importa che siano i fiori a rappresentare l’effimero, i fiori belli, indifesi, votati a rapida morte[5], oppure Enoch Arden che termina precocemente la sua vita offerta all’amore per Annie (e sappiamo quanto anche per Tennyson sia rilevante che Enoch assuma in sé i connotati della circolarità naturale - il 365 biblico, gli anni di Enoch rapito al cielo! e dei 6 giorni della Creazione!): si tratta sempre di natura (Enoch, il mare, i fiori) che scalza la storia, trascendendola e diventando simbolo dell’assoluto.

Su questa strada maestra Enoch Arden, successivo allo Zarathustra,si orienta già, profeticamente, verso esiti posteriori ad opere ancora di lì a venire come Salomé e Elektra (1909). Strauss abbandonerà Nietzsche, trovandone detestabili le esagerazioni. Abbandonerà gli isterismi di Salomé e Elektra. Ritornerà, invece, sul tema della fedeltà, soprattutto della fecondità coniugale. (E quanto importanti i simboli di fecondità in Enoch Arden?- ma non lo erano anche nello Zarathustra di Nietzsche? - a partire dalla prodigalità del bosco di noccioli, fino alla solitudine sacrificale di Enoch, realizzazione feconda della sua intima, generosa preghiera). In particolare in Die Frau ohne Schatten (La donna senz’ombra, su testo di Hofmannsthal), dove la trama è impostata sulla restaurazione di un armonia coniugale sotto scacco, superando ostacoli legati simbolicamente alla sterilità. L’archetipo della fecondità tout court (quindi anche artistica), dissimulato sotto le spoglie della fecondità biologica, diventa possibilità di dar voce, attraverso l’amore coniugale (ancora una volta il sesso, come nel Don Juan e nella Salomè), al coro dei bambini non nati ma desiderosi di esistere. Simboli da fiaba e metafore fin troppo chiare sul piano ontologico. La donna senz’ombra – essere elfico, fatato - che in virtù di una connessione simbolica non può sperimentare la maternità, riacquista la sua ombra, il controcanto naturale, il non essere della luce, della bellezza: e con ciò risana la ferita. Si evidenzia di nuovo lo schema ontologico delineato poc’anzi: il bello deve oscurarsi, lasciando il passo. Nel trapassare dell’immagine bella si acuisce il senso della sua bellezza, non solo perché, appunto, essa ci vien tolta, ma perché questa recisione, in modo naturale, anziché annullare avvalora il legame con la matrice inesauribile che l’ha fatta essere e nella quale alla fine s’immerge, in una fecondità, in un dono che supera il singolo. L’accettazione incondizionata, virile, tutt’altro che decadente di questo assioma non lascia, in Strauss, al senso della perdita di stabilirsi con troppa importanza al centro dell’interesse, fagocitando altre potenzialità.

Pietro De Luigi


 


[1]  E. A. Poe, citato da Maritain in L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia, p. 187. Tra le altre cose, Poe a proposito di Tennyson scrisse: “Mi domando a volte se Tennyson non sia il più grande dei poeti…”.  Segno, questo,  di una consentaneità che ci torna utile rimarcare.

[2]“ Quel che è grande nell’uomo è che egli è un ponte… : quel che si può amare nell’uomo è che egli è transizione e tramonto”.  “Io amo colui che ha l’anima così traboccante da dimenticare se stesso e tutte le cose che sono in lui: tutte le cose diventano così il suo tramonto” (Prefazione di Zarathustra). “Sì, molto amaro morire dev’essere nella vostra vita, o creatori! Sarete così gli intercessori e i giustificatori di ogni caducità. Perché il creatore sia egli stesso il figlio che viene di nuovo partorito, deve voler essere anche colei che partorisce e il dolore di colei che partorisce”. (Così parlò Zarathustra, parte seconda, Sulle isole beate).

[3] Vale a dire anche l’eterno ritorno, che è un modo, peculiare a Nietzsche, per sacralizzare ed eternizzare l’esistente effimero, la caducità: “come non potrei essere avido d’eternità, del nuziale anello degli anelli, - l’anello del ritorno? Mai trovai donna dalla quale volessi aver figli, se non questa donna che amo: poiché io ti amo, o eternità”. Da Così parlò Zarathustra: parte terza, I sette sigilli (Ovvero il canto del sì e dell’amen).

[4] Non sono d'accordo con quanto dice Quirino Principe sul “colpo di coda” del sadismo vittimistico tipicamente vittoriano: con la sua scelta Enoch costringe Annie ad un rimorso implacabile!!! Ma, in verità, che alternative aveva realmente Enoch, dato che era profondamente innamorato di Annie? Tacere anche post mortem? No. Egli ritiene che la sua fedeltà fino alla fine in definitiva la onori, e glielo vuol far sapere. Enoch si rende conto che quel che Annie ha fatto andava fatto, per il bene di tutti - e proprio per amore suo. Non per forza Annie dev’essere tanto piccina da non poterlo capire. Non solo: aveva Enoch il diritto di nascondere ai suoi figli (oltre che ad Annie) la sua storia? Quale morale impone che l’amore debba per forza nascondersi?

[5] Nel Cavaliere della Rosa come nei Lieder: “La linea floreale è in Strauss un doloroso controcanto; o forse è in segreto la vera via maestra, il soggetto principale dell’esposizione, e controcanto è il resto” (Q. Principe, Strauss, p. 786)