E. Severino

Pietro De Luigi on web

 

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Severino su Barzaghi
Gli uomini non diventano polvere
Che cosa significa pensare

Brani da vari scritti di Emanuele Severino

 

Sul "fondamento"

    La storia della filosofia occidentale è la vicenda dell'alterazione e quindi della dimenticanza del senso dell'essere, inizialmente intravisto dal più antico pensiero dei Greci. E in questa vicenda la storia della metafisica è il luogo ove l'alterazione e la dimenticanza si fanno più difficili a scoprirsi: proprio perché la metafisica si propone esplicitamente di svelare l'autentico senso dell'essere, e quindi richiama ed esaurisce l'attenzione sulle plausibilità con cui il senso alterato si impone. La storia della filosofia non è per questo un seguito di insuccessi: si deve dire piuttosto che gli sviluppi e le conquiste più preziose del filosofare si muovono all'interno di una comprensione inautentica dell'essere.

    Ma queste espressioni alludono a qualcosa di radicalmente diverso dall'interpretazione heideggeriana della storia della filosofia occidentale. La diversità è radicale, perché anche il pensiero dello Heidegger è una sorta di alterazione, e non meno grave, del senso dell'essere. Per lui, la più antica filosofia greca intravvede l'essere come 'presenza', ossia come l'apertura o l'orizzonte entro cui può giungere a manifestazione ogni determinatezza dell'ente. Resta così invertita la direzione della storiografia idealistica, che vede invece nell'orizzonte - l'attualista direbbe: nel pensiero, nell'atto - l'ultimo risultato dello sviluppo del sapere filosofico. Ciò che per l'idealista è risultato, per lo Heidegger è al contrario l'inizio; lo sfolgorante inizio che ben presto impallidisce e lascia il campo alla mistificazione metafisico-teologica dell'essere, nella quale l'orizzonte di ogni apparizione dell'ente diventa un ente, sia pure l'Ens supremum, das Seiendste.

    [...] Eppure è proprio nei pochi versi del poema di Parmenide che si nasconde la parola più essenziale e più dimenticata di tutto il nostro sapere. Per rintracciarla non si richiede quel sommovimento delle discipline filologiche, che la lettura heideggeriana pretende, ma un sommovimento ben più profondo e più arduo, quello cioè che porta alla comprensione della forza invincibile di un discorso che da millenni è saputo e pronunciato, ma che, appunto, non è più stato capito. Non si tratta allora di dare significati nuovi alle parole (quasi che riportando l'essere alla presenza ci si trovasse di fronte a qualcosa di più evidente dell'essere), ma di pensare quelli vecchi, di ridestarli, e in questo senso, certamente, rinnovarli sino alle ultime sorgenti.

    esti gar einai, mhden d'ouk estin (fr. 6, vv.1-2). Le parole son pure sempre queste, che in varie guise ritornano insistenti nel poema. Il gran segreto sta pur sempre in questa povera affermazione che «L'essere è, mentre il nulla non è». Nella quale non si indica semplicemente una proprietà, sia pur quella fondamentale, dell'essere, ma se ne indica il senso stesso: l'essere è appunto ciò che si oppone al nulla, è appunto questo opporsi. L'opposizione del positivo e del negativo è il grande tema della metafisica, ma esso vive in Parmenide con quella sconfinata pregnanza che il pensiero metafisico non saprà più penetrare. La semplice opposizione tra l'essere (inteso come ciò che è) e il nulla (inteso come ciò che non è) resta infatti nell'ambiguità; e nell'ambiguità prende avvio quel rigoglioso sviluppo di concetti che porta Platone e Aristotele alla riflessione sul positivo e il negativo. Ambigua, diciamo, quella semplice opposizione, perché la si può intendere - come in effetti si incominciò e si continuò ad intenderla - come una legge, e sia pure la legge suprema, che governa sì l'essere, ma che lo governa - eccoci al cuore del labirinto - sin tanto che esso è. L'ambiguità, con queste ultime parole, è già divenuta fatale; il senso dell'essere è già tramontato. Ma nel tramonto, come ben sapeva Platone, le ombre prendono uno spicco e una verosimiglianza particolari: dov'è mai l'ambiguità? L'essere si oppone al nulla; ma è chiaro che può opporvisi solo se è e quando è; perché, se non è, non è niente e non si oppone a niente. Questo il discorso del tramonto del senso dell'essere, che trova nel Liber de Interpretatione di Aristotele la sua formulazione più rigorosa ed esplicita [...] «E' necessario che l'essere sia, quando è, e che il non-essere non sia, quando non è; tuttavia non è necessario che tutto l'essere sia, né che tutto il non essere non sia; non è infatti la stessa cosa che tutto ciò che è sia necessariamente, quando è, e l'essere senz'altro di necessità. La stessa cosa si dica del non essere». In questa chiara luce del tramonto, quelle parole di Parmenide non possono che apparire come esse stesse equivoche: l'essere è: sì, ma quando è; il non-essere non è: sì, ma quando non è; non facciamo confusione tra la necessità che l'essere sia quando è [...], e la necessità simpliciter che l'essere sia [...], tra la necessità che il non-essere non sia, quando non è, e la necessità simpliciter che il non essere (le cose che non sono) non sia! Parmenide non sapeva distinguere.

    Eppure in questo discorso il senso dell'essere si è già dileguato; la stessa chiarezza del discorso denuncia che la rottura è ormai irrimediabile. Perché la lotta tra l'essere e il nulla non è come quella che si combatteva tra gli antichi eserciti, che di giorno guerreggiavano, mentre a notte i capi nemici bevevano insieme sotto le tende - nemici dunque quando e se fossero stati in campo: Questo poteva avvenire perché, oltre che nemici, erano anche uomini. L'essere, invece, è un tale nemico del nulla che nemmeno di notte disarma: se lo facesse, non si strapperebbe di dosso la propria armatura, ma le proprie carni. Guardiamolo infatti questo essere, che è quando è. E' il nemico diurno del nulla: quando è (quando di giorno è in campo), si oppone al nulla; e questa opposizione vien detta da Aristotele [...] principium firmissimum, 'principio di non contraddizione', quel principio cioè che tutti, anche gli antimetafisici più ostinati, finiscono sempre, più o meno esplicitamente con l'accettare. Ma poi vien notte: quando l'essere non è (quando ha lasciato il campo), allora non si oppone nemmeno più al nulla: perché esso stesso è diventato un nulla. Tuttavia resta sempre dominato dal principium firmissimum, perché, quando l'essere non è, non è. L'incontraddittorietà dell'essere sembra comunque salvaguardata: proprio nell'atto in cui la si sta negando nel modo più radicale e più insidioso.

    Perché questo essere notturno, questo essere che ha lasciato il campo, è l'essere che ha lasciato l'essere. E che cosa è mai allora? Che significato possiede la parola 'essere' nell'espressione: «Quando l'essere non è»? Se sosteniamo che, quando l'essere non è, l'essere è divenuto nulla, perché continuiamo a dire: «Quando l'essere non è» e non diciamo piuttosto: «Quando il nulla non è»? Eppure tra un essere che non è e un nulla che non è non c'è alcuna differenza. Ciononostante non si è disposti a consentire che l'espressione: «Quando l'essere non è» sia sostituita dall'espressione «Quando il nulla non è». Non si è disposti a tanto, perché - nonostante il tradimento che si va perpetrando - si intende pur tuttavia continuare a tener fermo che l'essere non è il  nulla, il positivo non è il negativo. [...] Pensare «quando l'essere non è», pensare cioè il tempo del suo non essere significa pensare il tempo in cui l'essere è il nulla, il tempo in cui si celebra la tresca notturna dell'essere e del nulla. Ciò che l'opposizione dell'essere e del nulla rifiuta è appunto che ci sia un tempo in cui l'essere non sia, un tempo in cui il positivo sia il negativo.

    Il tramonto dell'essere avviene dunque così: nel non avvedersi che acconsentendo all'immagine di un tempo in cui l'essere non è, si acconsente all'idea che il positivo è il negativo. Che cosa significa «è» nella frase: «L'essere è», se non che l'essere «non è il nulla»? Ossia «è» significa: «respinge via il nulla», «vince il nulla», «domina sul nulla», significa l'energia che gli consente di spiccare sul nulla. Se «l'essere è» significa: «L'essere non è il nulla», dire che l'essere non è significa dire che l'essere è il nulla. Il discorso aristotelico (ripetuto dagli aristotelici e dagli scolastici vecchi e nuovi), ponendo che quando l'essere è, è, e quando non è, non è, dice dunque che quando l'essere è il nulla, allora è nulla; e non si accorge che il vero pericolo dal quale ci si deve guardare non è l'affermazione che, quando l'essere è nulla, sia essere (e quando è essere, sia nulla), ma è l'acconsentimento che l'essere sia nulla, cioè l'acconsentimento che si dia un tempo in cui l'essere non è il nulla (quando è) e un tempo e un tempo in cui l'essere è nulla (quando non è), cioè l'acconsentimento che l'essere sia nel tempo. In questo modo il 'principio di non contraddizione' diventa la forma peggiore di contraddizione: proprio perché la contraddizione viene nascosta nella formula stessa con la quale ci si propone di evitarla e di bandirla dall'essere. Questo principium firmissimum chiude la stalla dopo che i buoi sono scappati; è un giudice che, colpevole dei delitti più gravi, punisce i reati di poco conto e che infine nessuno ha intenzione di commettere.

(da Ritornare a Parmenide, cap 1. Il tramonto del senso dell'essere, in Essenza del nichilismo, pp. 20-23, Adelphi)

 

Sul "destino"

    Nei miei scritti 'destino' significa ciò che sta (de-stino) già da sempre manifesto, e nella cui luce già da sempre l'uomo si trova. Il destino si mantiene libero dalla dominazione dell'Occidente.[...]

    Il destino vede che ogni essente è ed è impossibile che non sia. Vede che ogni essente è eterno: ogni istante e il contenuto determinato di ogni istante, ogni cosa, situazione, aspetto, forma, sfumatura, relazione, sostanza, ogni materia e ogni pensiero, ogni gesto, ogni verità e ogni errore, e la stessa Follia estrema dell'Occidente, ogni gioia e dolore, e la presenza stessa, l'apparire, il manifestarsi di tutti gli essenti. Ogni essente è eterno: non come è eterno Dio, rispetto alla non eternità delle cose divenienti del mondo; e nemmeno come è eterna la potenza della verità assoluta che domina il divenire delle cose.

    L'eterno non è la potenza sovrastante del padrone; perché tutto è eterno. Non vi sono servi; non c'è nemmeno un padrone.

    Il destino vede infatti che pensare che l'essente esce e ritorna nel niente, significa pensare che l'essente è niente. Il destino pensa l'impossibilità che l'essente sia niente. Questo stesso pensiero, che pensa l'eternità di tutte le cose, è eterno. Circonda la storia della Follia dell'Occidente e dei mortali, come il cielo circonda tutti coloro che non lo guardano. Nella nostra essenza più profonda noi siamo il cielo.

(da La Follia dell'Angelo, pp. 85-86, Rizzoli).

 

Sulla "Gioia"

    Ma, al di là dell'antropologia e della teologia dell'Occidente, la 'Gioia' a cui si riferiscono i miei scritti è il toglimento della totalità delle contraddizioni. Esso non attende il futuro per compiersi. E' già da sempre. E' eterno.

    Come individuo l'uomo è contraddizione. Ma è contraddizione anche come apertura della verità: nella misura in cui è un'apertura finita. Ma il luogo dove è tolta la totalità delle contraddizioni dell'uomo è il luogo dove l'uomo riesce ad essere, già da sempre, totalmente se stesso. Non è inopportuno chiamare 'Gioia' questo luogo, perché ogni dolore e ogni angoscia è contraddizione (cioè un essere costretti ad essere quello che non si vuole essere). Il toglimento della totalità delle contraddizioni è la manifestazione totale della verità. Noi siamo questa manifestazione. Noi siamo la Gioia.

(da La Follia dell'Angelo, p. 50, Rizzoli)

 

Severino su Barzaghi
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Che cosa significa pensare

G. Barzaghi

 

 

 

 

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