Abbozzo di un'estetica

Pietro De Luigi on web

 

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Tratto da: http://www.rodoni.ch/busoni/estetica/estetica.html

 


FERRUCCIO BUSONI

ABBOZZO DI UNA NUOVA ESTETICA DELLA MUSICA (*)

 


TEXT AUF DEUTSCH

 


A Rainer Maria Rilke musico della parola,
con ammirazione e amicizia

"Che cercate? Dite! E che aspettate?"
"Non lo so; io voglio l'ignoto! Ciò che
mi è noto è illimitato. Io voglio saperne
ancora. L'ultima parola mi manca."
(Ferruccio Busoni, Il mago possente)

Sentivo... che non avrei mai scritto un libro
inglese, né uno latino: e per questo solo motivo...
che la lingua in cui forse mi sarebbe dato non
solo di scrivere, ma anche di pensare, non è
quella latina né l'inglese, né l'italiana o la spagnola,
ma una lingua delle cui parole neppure una m'è
nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute
e in cui forse mi giustificherò un giorno
nella tomba davanti a un giudice sconosciuto.
(Hugo von Hofmannsthal, Lettera aLord Chandos (**))

Anche se nella forma letteraria si presentano alquanto slegate fra loro, queste note sono in verità il risultato di convinzioni maturate a lungo e lentamente.
Con apparente disinvoltura vi si pone un problema assai grande, senza che della sua definitiva soluzione si dia la chiave: perché non si può risolvere questo problema nel breve tempo di una vita umana, ammesso pure che risolvere si possa. Ma esso comprende in sé una innumerevole serie di problemi minori che propongo alla meditazione degli interessati. Perché già da molto tempo non ci si è dedicati a serie ricerche nel campo della musica.
Certo, in ogni tempo sorgono opere geniali e mirabili, e sempre io sono stato tra i primi a salutare con gioia il passaggio dei vessilliferi del nuovo; ma mi sembra che le molteplici strade che vengono battute conducano sì ben lontano - ma non verso l'alto.

Lo spirito di un'opera d'arte, la misura del sentimento, l'umano ch'è in essa rimangono d'uguale valore nel mutare dei tempi; la forma che accolse in sé questi tre elementi, i mezzi che li espressero e il gusto di cui li tinse l'epoca in cui l'opera fu scritta sono fuggevoli e invecchiano rapidamente. Spirito e sensibilità conservano il loro carattere così nell'opera d'arte come nell'uomo; le conquiste d'indole tecnica, accettate con entusiasmo e ammirate, vengono superate, oppure il gusto se ne allontana, sazio.
Le qualità transitorie costituiscono il «moderno» di un'opera; quelle immutabili la preservano dal diventare «fuori moda». Nel «moderno» come nel «vecchio» c'è del buono e del cattivo, dell'autentico e del falso. In senso assoluto il moderno non esiste - in arte esiste solo il nato prima e il nato dopo; ciò che fiorisce a lungo e ciò che in breve appassisce. Sempre c'è stato del moderno e sempre dell'antico.
Le forme artistiche sono tanto più durature quanto più si mantengono vicine all'essenza del singolo genere d'arte, quanto più si conservano pure nei loro mezzi e scopi naturali.
La scultura rinuncia all'espressione della pupilla umana e ai colori;
la pittura si degrada se abbandona la superficie quale mezzo di espressione e si complica fino a diventare decorazione teatrale o quadro panoramico;
l'architettura ha la sua forma fondamentale che deve procedere dal basso verso l'alto, prescritta da necessità della statica; le finestre condizionano necessariamente la struttura centrale e il tetto quella conclusiva: condizioni permanenti e inattaccabili;
la poesia domina il pensiero astratto che riveste di parole; raggiunge i più lontani confini e dispone della massima indipendenza.
Ma tutte le arti, mezzi e forme hanno sempre un unico scopo, ritrarre la natura ed esprimere i sentimenti umani.
Architettura, scultura, poesia e pittura sono arti antiche e mature; i loro concetti sono fissati e i loro scopi sono sicuri; attraverso millenni esse hanno trovato la loro via e descrivono la loro orbita al modo dei pianeti, regolarmente [1].
Di fronte a loro la musica è come un bambino che ha bensì imparato a camminare, ma deve ancora essere guidato. È un'arte vergine che non ha ancora nulla provato e sofferto. Essa stessa non si rende conto di ciò che le conviene, dei vantaggi che possiede e delle capacità che sonnecchiano in lei: d'altra parte è un fanciullo prodigio che può già dar molto di bello, che ha già saputo dar gioia a molti e le cui doti sono da tutti ritenute pienamente mature.

La musica in quanto arte, la cosiddetta musica occidentale, ha appena quattrocent'anni di vita; si trova nel periodo dello sviluppo: forse nel primissimo stadio di uno sviluppo ancora imprevedibile. E parliamo di classici e di tradizioni consacrate! [2] Già un Cherubini nel suo trattato di contrappunto parla degli «antichi».
Noi abbiamo formulato delle regole, posto dei principi, prescritto delle leggi... applichiamo le leggi degli adulti a un fanciullo che non ha ancora il senso della responsabilità!
Per quanto giovane, in questo fanciullo si può già riconoscere una qualità radiosa che lo distingue dai suoi compagni più anziani. Ed è proprio questa mirabile qualità che i legislatori non vogliono vedere, perché altrimenti le loro leggi crollerebbero. Il fanciullo vola! I suoi piedi non toccano la terra. Non è soggetto alla gravità. È quasi incorporeo. La sua materia è trasparente. Aria che vibra. Quasi la natura stessa. Egli è libero.

Però la libertà è cosa che gli uomini non hanno mai compreso pienamente, né interamente sentito. Essi non sanno conoscerla né riconoscerla.
Negano la vocazione di questo fanciullo e lo incatenano. Quest'essere aereo deve camminare come si conviene, deve - come ogni altro - adattarsi alle regole della decenza; appena gli è permesso di saltellare - mentre sarebbe sua aspirazione seguire la curva dell'arcobaleno e rompere con le nuvole i raggi del sole.

La musica è nata libera e divenir libera è il suo destino. Diverrà la più perfetta delle interpretazioni della natura grazie alla libertà della sua immaterialità. Persino la parola poetica le è seconda nell'incorporeità: la musica può raccogliersi su se stessa e distendersi, può essere la calma più immobile e l'impeto più sfrenato; essa attinge i culmini più alti che siano immaginabili per gli uomini - quale altra arte può tanto? -, e la sua sensibilità colpisce il cuore umano con quella intensità che è indipendente dal «concetto».
Essa ritrae un carattere senza descriverlo, con la mobilità dell'anima, con la vivacità dei momenti che si susseguono; laddove il pittore o lo scultore possono rappresentare un solo lato o un momento di una situazione e il poeta interpreta un temperamento e i suoi moti faticosamente, allineando parole.
Perciò rappresentazione e descrizione non sono l'essenza della musica; e con ciò noi pronunciamo il rifiuto della musica a programma e veniamo alla questione dei fini dell'arte musicale.

Musica assoluta! Quel che i legislatori intendono con questa parola è forse quanto in musica ci sia di più lontano dall'assoluto. «Musica assoluta» è un gioco formale, privo di programma poetico dove la parte più importante è la forma. Ma appunto la forma è l'opposto della musica assoluta, che ebbe il divino privilegio di librarsi a volo, libera dai vincoli della materia. In un quadro, la rappresentazione di un tramonto è delimitata dalla cornice; il fenomeno naturale, sconfinato, assume una limitazione quadrangolare; il disegno di una nube, scelto una volta, rimane immutabile per sempre. La musica può rischiararsi, oscurarsi, spostarsi e infine svanire come lo stesso fenomeno naturale: l'istinto decide il musicista creatore ad impiegare quegli accenti che toccano gli stessi tasti nell'animo umano e risvegliano la stessa eco dei fenomeni naturali.
Invece la musica assoluta è qualcosa di freddo, che fa pensare a leggii ben allineati, al rapporto di tonica e dominante, a sviluppi tematici e code.
Sento il secondo violino che si sforza di imitare il primo, più bravo di lui, una quarta sotto; sento una lotta inutile per arrivare là donde si era partiti. Questa musica dovrebbe piuttosto chiamarsi architettonica o simmetrica o ordinata e trae origine dal fatto che singoli compositori rivestirono di questa forma il loro spirito e la loro sensibilità, perché era la più vicina alla loro indole o al loro tempo. I legislatori hanno identificato lo spirito, la sensibilità, l'individualità di quei compositori e il loro tempo con la musica simmetrica e finalmente - poiché non potevano ricrearne né lo spirito, né la sensibilità, né l'epoca - hanno conservato la forma come simbolo e l'hanno innalzata alla dignità di emblema a dogma di fede. I compositori cercarono e ritennero questa forma il mezzo più adatto a comunicare il loro pensiero; questo svanì e i legislatori scoprono e conservano le vesti di Euforione rimaste sulla terra:
«È pur sempre un bel trovare. La fiamma, certo, è scomparsa, non per questo il mondo mi fa compassione: ce ne resta abbastanza per consacrare poeti e fondare invidie di corporazione e di mestiere. E se non posso conferire talenti, ne darò almeno in pegno la veste» (1).
Non è strano che dal compositore si esiga originalità in tutto e gliela si vieti nella forma? Perché meravigliarsi se, quando diventa veramente originale, lo si accusa di mancanza di forma? Mozart! L'uomo che cercae che trova, il grand'uomo dal cuore di fanciullo, lui ammiriamo, a lui aderiamo, non alla sua tonica e dominante, ai suoi sviluppi e code.

Di tale desiderio di liberazione era colmo Beethoven, il romantico uomo della Rivoluzione, che ascese di un piccolo passo nel ricondurre la musica alla sua natura più alta; un piccolo passo del grande compito; un passo grande sulla sua strada personale. Egli non ha raggiunto la musica assoluta interamente, ma l'ha presentita in momenti singoli come nell'introduzione alla Fuga della Sonata op. 106. In generale i compositori si sono avvicinati alla vera natura della musica soprattutto nei brani di preparazione e di congiunzione (preludi e transizioni), nei quali credettero fosse loro concesso di trascurare la simmetria e sembrarono respirare, senza saperlo, liberamente. Persino il tanto minore Schumann è toccato da una scintilla di questa sconfinata arte panica in certi passi di preparazione e di congiunzione - prova ne sia il passaggio al Finale della Sinfonia in re minore - e lo stesso si può affermare di Brahms nell'introduzione al Finale della sua Prima Sinfonia.
Ma non appena essi varcano la soglia del tema principale, il loro portamento diventa rigido e convenzionale come quello di qualcuno che entri in un pubblico ufficio.
Accanto a Beethoven, chi più si avvicina alla musica primordiale è Bach. Le sue fantasie per organo (non le fughe) hanno indubbiamente un forte tratto paesaggistico (contrapposto all'architettonico), ispirazioni che si potrebbero definire «uomo e natura» [3]; in lui la forma si muove nel modo più libero perché egli non si sentì legato ai suoi predecessori - pur ammirandoli e talora traendone profitto - e perché l'ancora recente conquista della scala temperata gli offriva infinite possibilità nuove.
Perciò Bach e Beethoven debbono essere considerati un principio e non un punto d'arrivo da non superare. Non si potranno probabilmente superare il loro spirito e il loro sentire; e ciò riconferma quanto è stato detto al principio di queste righe. Cioè che sentire e spirito non perdono nulla del loro valore per mutar dei tempi, e che colui che sale alle loro più eccelse vette sovrasterà in ogni tempo la folla.
Ciò che dev'essere ancora superato è la loro forma espressiva e la loro libertà. Wagner, gigante germanico che nella sonorità della sua orchestra sfiorò l'orizzonte terreno, che accrebbe certo la potenza espressiva, ma la limitò a un sistema (dramma musicale, declamazione, tema conduttore), non è passibile di ulteriore accrescimento per i limiti che egli stesso si pose. La sua specie comincia e finisce con lui; in primo luogo perché egli la portò alla più alta perfezione, alla compiutezza; poi perché il compito che egli si era posto era tale che un uomo solo poteva bastare a risolverlo. «Egli ci dà allo stesso tempo il problema e la sua soluzione», come ebbi a dire una volta di Mozart (2). Le vie che Beethoven ci ha aperto potranno essere percorse compiutamente soltanto da varie generazioni. Può essere che -come tutto nel sistema cosmico - esse formino solo un cerchio; di tali dimensioni però, che la parte che noi ne vediamo ci appare come una linea retta. Il cerchio tracciato da Wagner lo abbracciamo invece interamente. Un cerchio nel gran cerchio.

Il nome di Wagner ci riporta alla musica a programma. Essa è stata assunta a contrapposto della cosiddetta musica assoluta, e i concetti si sono talmente cristallizzati che anche persone intelligenti si attengono all'una o all'altra dottrina senza accettare una terza possibilità che stia al di fuori e al di sopra di queste due. In realtà la musica a programma è altrettanto unilaterale e limitata di quei disegni da tappezzeria sonora magnificati da Hanslick (3) , che si proclamano musica assoluta. Invece delle formule architettoniche e simmetriche, invece dei rapporti di tonica e dominante essa si è legata al vincolo del programma poetico, a volte persino filosofico, come a una rotaia.
Ogni motivo, così mi sembra, racchiude in sé il suo impulso vitale come un seme. Semi diversi generano specie diverse di piante, che si distinguono per forma, fogliame, fiori, frutti, sviluppo e colori [5].
Persino la stessa specie di pianta cresce in una forma indipendente per sviluppo, aspetto e forza, in ogni suo esemplare. Così in ogni motivo esiste, stabilita a priori, la sua forma compiuta; ogni singolo tema deve svilupparsi differentemente, ma ognuno segue in questo processo le necessità dell'eterna armonia. Questa forma rimane indistruttibile, non mai però uguale a se stessa.

Il tema musicale dell'opera a programma porta in sé le stesse condizioni; ma già nella prima fase del suo sviluppo, anziché secondo la sua legge deve formarsi, o piuttosto «incurvarsi», secondo quella del «programma». In questo modo, portato sin dal principio fuori della sua vita naturale, si trova infine a un punto d'arrivo assolutamente inaspettato, dove l'hanno portato non la sua costituzione organica ma, di proposito, il programma, l'azione, l'idea filosofica.
Invero un'arte limitata, primitiva! Certo, esistono espressioni musicali descrittive evidentissime - hanno appunto costituito la base di tutta questa teoria -, ma sono mezzi scarsi e piccini che della musica formano una parte molto esigua. Il più evidente è l'avvilimento del suono a risonanza, nell'imitare i rumori della natura: il rimbombo del tuono, il mormorio degli alberi, le voci degli animali; e già meno evidenti, simboliche, le riproduzioni delle percezioni visive, come il balenare del lampo gli sbalzi improvvisi, il volo degli uccelli; e comprensibili solo attraverso una trasposizione attuata dalle facoltà intellettive, il segnale delle trombe come simbolo di guerra, la zampogna come evocazione pastorale, il ritmo di marcia a significazione del camminare, il corale come latore del sentimento religioso. Aggiungiamo gli elementi caratteristici nazionali - strumenti nazionali e motivi nazionali - e avremo esaurientemente enumerato tutti gli espedienti della musica a programma. Tempo mosso e tranquillo, minore e maggiore, acuto e basso [6] nel loro significato tradizionale completano l'inventario. Nel vasto campo della composizione musicale tutti questi possono essere utili mezzi sussidiari, ma presi in sé, nulla hanno in comune con la musica: allo stesso modo come le figure di cera nulla hanno in comune con la scultura.

E infine che cosa può avere in comune la rappresentazione di un piccolo avvenimento terreno, il ragguaglio intorno a un fastidioso vicino - poco importa se costui si trovi nella stanza attigua o in un altro continente - con quella musica che si diffonde nell'universo?

Indubbiamente la musica ha il potere di far vibrare i più diversi stati d'animo: paura (Leporello), affanno, rinvigorimento, spossatezza (gli ultimi quartetti di Beethoven), decisione (Wotan), esitazione, abbattimento, durezza, tenerezza, eccitazione, il rianimarsi, il quietarsi, il sorprendente, l'aspettativa, ecc.; e anche la risonanza interna di avvenimenti esteriori che è contenuta in quegli stati d'animo. Ma non può riprodurre la causa di quei moti d'animo: non la gioia per uno scampato pericolo, non il pericolo o il genere di pericolo che destano la paura; può ben rappresentare uno stato passionale, ma non la qualità psichica di questa passione, se sia invidia o gelosia; altrettanto inutile è voler tradurre in suoni qualità morali come vanità, intelligenza, o addirittura voler esprimere per suo mezzo concetti astratti come verità e giustizia. Come si potrebbe pensare a riprodurre in musica un uomo povero, eppure contento? La contentezza, come stato psichico potrà tradursi in musica; ma dove rimane la povertà, il problema etico che in questo caso era importante, povero ma contento? E questo perché «povero» è una condizione terrena e sociale, che non ha riscontro nell'armonia eterna. Ma la musica è una parte dell'universo vibrante.

(4) La massima parte della musica teatrale moderna soffre dell'errore di voler ripetere gli avvenimenti che si svolgono sulla scena, invece di perseguire il suo vero e proprio compito, quello cioè di esprimere lo stato d'animo dei personaggi durante gli avvenimenti. Se la scena ci presenta un immaginario temporale, questo avvenimento basta sia percepito dagli occhi. Eppure quasi tutti i compositori si sforzano di descrivere il temporale in musica, il che non solo è ripetizione indebolita e inutile ma trascuranza del loro compito. O il personaggio sulla scena risente nella sua anima l'influsso del temporale, o a causa di pensieri che lo occupano più fortemente non lo risente. Il temporale si può vedere e udire anche senza l'aiuto della musica; ma ciò che passa intanto nell'anima dell'uomo, ciò che non si può vedere né udire, questo la musica deve rendere comprensibile.
D'altra parte esistono stati d'animo «visibili» sulla scena, dei quali non occorre che la musica si occupi. Prendiamo la seguente situazione teatrale: [7] (6) una lieta brigata notturna si allontana cantando e scompare dalla vista; frattanto in primo piano si combatte in silenzio un accanito duello. Qui la musica dovrà prolungare la presenza dell'allegra brigata, non più raggiungibile con l'occhio, per mezzo del canto che dovrà continuare: quel che fanno i due in primo piano e quel che sentono frattanto, è comprensibile senza bisogno di ulteriori spiegazioni e la musica, drammaticamente parlando, non deve prendervi parte, né interrompere il tragico silenzio.
Ritengo giustificata, entro certi limiti, la formula dell'opera antica, che ricapitolava lo stato d'animo raggiunto da una scena drammaticamente movimentata concludendolo in un pezzo chiuso (l'aria). - Parola e gesto comunicavano il corso drammatico dell'azione, seguiti appena dalla musica in forma di recitativo; giunti alla sosta, la musica riprendeva la parte principale. Tutto ciò è meno esteriore di quanto ci si voglia far credere oggi. Fu la forma irrigidita di questa «aria» che portò alla falsità dell'espressione e alla decadenza.

Sempre (7) la parola cantata sul palcoscenico rimarrà una convenzione e un ostacolo per ogni effetto veridico: per uscire con decoro da questo conflitto, l'azione in cui i personaggi agiscono cantando dovrà essere posta sin da principio su di un piano incredibile, irreale, inverosimile, affinché l'impossibile poggi sull'impossibile, e tutti e due divengano possibili e accettabili.

Già per questo, perché ignora a priori questo importante principio [7], ritengo il cosiddetto verismo italiano insostenibile sulla scena musicale.

Quanto alla questione del futuro dell'opera, bisogna conquistare la chiarezza anche su questo quesito: «In quali momenti la musica è indispensabile a teatro?» Ecco la risposta precisa: nelle danze, nelle marce, nelle canzoni, e quando nell'azione interviene il soprannaturale.
Ne nasce una nuova possibilità per l'idea del contenuto soprannaturale. E un'altra ancora, per quella del puro «gioco»: il piacere del travestimento, il teatro come aperta e voluta simulazione, lo scherzo e l'irrealtà come opposti alla serietà e alla veridicità della vita. Allora sarà giusto che i personaggi affermino il loro amore e scarichino il loro odio cantando, e si battano in duello melodicamente, e nelle esplosioni patetiche diano in lunghe «corone» sugli acuti; allora sarà giusto che di proposito si comportino in modo diverso sulla scena che nella vita in luogo di fare involontariamente il contrario (come accade sui nostri teatri, soprattutto nell'opera).
L'opera dovrebbe impadronirsi del soprannaturale e dell'innaturale come della sola regione di fenomeni e sentimenti che le convenga, e così creare un mondo di apparenze che rifletta la vita in uno specchio magico o in uno deformante: dovrebbe voler dare di proposito ciò che nella vita reale è irreperibile. Lo specchio magico per l'opera seria, lo specchio deformante per l'opera comica. E vi siano pure intrecciate danze, mascherate e magie, così che lo spettatore abbia coscienza ad ogni momento della piacevole menzogna e non vi si abbandoni come se si trattasse di un avvenimento di vita reale.
A quel modo che l'artista, se vuol commuovere, non dev'essere commosso lui stesso, pena la perdita immediata della padronanza dei suoi mezzi al momento buono, così anche lo spettatore, se vuol gustare l'effetto teatrale, non deve mai confonderlo con la realtà, altrimenti il godimento estetico si abbasserà a mera partecipazione umana. Chi rappresenta «reciti», non viva in proprio. E lo spettatore rimanga incredulo e con ciò libero nel suo spirituale ricevere e gustare.

Stando a queste premesse, un futuro per l'opera si può concepire benissimo. Ma temo che l'ostacolo primo e più duro l'opporrà il pubblico stesso.
Di fronte al teatro le sue disposizioni, mi sembra, sono addirittura criminali: si può pensare che i più esigano dalla scena una forte emozione realistica, proprio perché siffatte emozioni mancano alla loro mediocre esistenza; certo anche perché il coraggio vien loro meno di fronte a quei conflitti cui aspirerebbero. E la scena offre al pubblico questi conflitti senza i pericoli concomitanti e le cattive conseguenze, senza comprometterlo e soprattutto senza affaticarlo. Perché il pubblico non sa e non vuol sapere che chi vuol accogliere in sé un'opera d'arte deve fare metà del lavoro lui stesso.

(Riprende il testo della I edizione)
L'esecuzione della musica proviene da quelle libere altezze dalle quali la musica stessa è discesa. Quando essa corre il rischio di divenire terrena, all'esecuzione spetta di risollevarla, aiutandola a ritrovare il suo originario «librarsi».
La notazione, la scrittura di pezzi musicali, è in primo luogo un ingegnoso espediente per fissare un'improvvisazione, sì da poterla far rivivere in un secondo tempo. Ma tra quella e questa corre lo stesso rapporto che tra il ritratto e il modello vivo. L'esecuzione deve sciogliere la rigidità dei segni e rimetterli in movimento.
Invece i legislatori pretendono che l'esecutore riproduca la rigidità dei segni e considerano la riproduzione tanto più perfetta quanto più si attiene ai segni.
Quello che il compositore necessariamente perde della sua ispirazione attraverso i segni [8], l'esecutore deve ricrearlo attraverso la sua propria intuizione.
Per i legislatori appunto i segni sono ciò che più importa, e sempre più importanza acquistano: la musica nuova viene dedotta dai segni antichi - essi significano la musica stessa.
Se dipendesse dai legislatori, lo stesso pezzo dovrebbe esser suonato sempre nello stesso movimento ad ogni esecuzione, poco importa per opera di chi e in quali circostanze.
Ma questo non è possibile; la natura alata ed espansiva del divino fanciullo vi si oppone; essa esige il contrario. Ogni giorno comincia in modo diverso dal precedente e pur sempre con un'aurora. - Grandi artisti suonano le loro proprie opere in modo sempre differente, le riplasmano secondo l'ispirazione del momento; affrettano e trattengono i tempi - in un modo che non è possibile fissare sulla carta - e sempre secondo rapporti suggeriti da quella «eterna armonia».
Allora il legislatore si irrita e rimanda il creatore al suo stesso testo. E allo stato attuale delle cose si dà ragione al legislatore.

«Notazione» («scrittura») mi conduce a «trascrizione»: concetto molto mal compreso oggi e quasi spregiativo. La frequente opposizione che ho sollevato con le mie «trascrizioni», e quella che tante critiche irragionevoli hanno sollevato in me, mi hanno spinto a tentar di raggiungere la chiarezza su questo punto. Ecco quanto in definitiva ne penso: ogni notazione è già trascrizione di un'idea astratta. Nel momento in cui la penna se ne impadronisce, il pensiero perde la sua forma originale. L'intenzione di fissare l'idea con la scrittura impone già la scelta della battuta e della tonalità. Il mezzo formale e sonoro - per il quale il compositore deve pur decidersi - determinano sempre più via e limiti.
È come con l'uomo. Nato ignudo e con inclinazioni ancora indeterminabili, l'uomo si decide, o a un dato momento è costretto, a scegliere una carriera. Seppure qualcosa dell'indistruttibile carattere originario tanto dell'idea musicale quanto dell'uomo permanga, tuttavia a partire dal momento della scelta essi vengono costretti in un tipo già classificato. L'idea diventa una sonata o un concerto, l'uomo un soldato o un sacerdote. Questo è un arrangiamento dell'originale. Da questa prima trascrizione alla seconda il passo è relativamente breve e senza importanza. Pure, in generale, si fa gran caso solo della seconda. E nel far ciò non si avverte che la trascrizione non distrugge la versione originale e quindi per colpa di quella non si perde questa.
Anche l'esecuzione di un pezzo è una trascrizione, e anche questa non potrà mai far sì che l'originale non esista - per quanto libera ne sia l'esecuzione.
- Giacché l'opera d'arte musicale sussiste intera e indenne prima di risuonare e dopo che ha finito di risuonare. È insieme dentro e fuori del tempo, e la sua essenza è quella che ci può dare una tangibile rappresentazione del concetto dell'idealità del tempo, altrimenti inafferrabile.

Del resto la maggior parte delle composizioni per pianoforte di Beethoven fanno l'effetto di trascrizioni dall'orchestra, la maggior parte delle opere orchestrali di Schumann di trascrizioni dal pianoforte - e in certo modo lo sono.

Strano a dirsi, la forma della variazione trova grande considerazione presso coloro che si attengono alla lettera. È strano, perché la forma della variazione - quando è costruita su un tema altrui - presenta tutta una serie di rielaborazioni, e tanto più irrispettose quanto più sono geniali.
Così la rielaborazione sarebbe illegittima perché muta l'originale; e il mutamento legittimo, benché lo rielabori [9].

«Musikalisch» è concetto che appartiene ai tedeschi, in nessun altra lingua la parola «musicale» è usata in quel senso. È un concetto che appartiene ai tedeschi e non alla cultura universale, e il suo significato è errato e intraducibile. La parola «musikalisch» deriva da musica, come «poetico» da poesia e «fisico» da fisica. Se io dico: Schubert fu uno degli esseri più «musicali», è come se io dicessi: Helmholtz fu uno degli esseri più «fisici». Musicale vuol dire: ciò che a noi riesce percepibile in ritmi e intervalli. Musicale può essere un armadio, se contiene un carillon [10]. In senso traslato, ad ogni modo, «musicale» può voler dire armonioso.
Un noto poeta mi disse una volta: «I miei versi sono troppo musicali per poter essere musicati».

«Spirits moving musically
to a lute's well-tuned law»
[«Gli spiriti si muovevano musicalmente
seguendo la bella melodia del liuto»]

dice E.A. Poe; e ben a proposito si parla di «riso musicale», perché suona come musica.
Nell'uso tedesco corrente, e quasi esclusivo, persona musicale è chi dà prova di comprensione per la musica per il fatto di distinguere e di sentire il lato tecnico di quest'arte; con questo intendendosi qui ritmo, armonia, intonazione, andamento delle parti e tematica. Quante più finezze egli vi sa distinguere o riprodurre, tanto più musicale è giudicato.
Dato il gran peso che si dà a questi elementi della musica, è naturale che la «musicalità» abbia assunto un'importanza enorme. - Di conseguenza un artista che suona con tecnica perfetta dovrebbe apparire l'esecutore più musicale: ma poiché per tecnica si intende solo il dominio meccanico dello strumento, «tecnico» e «musicale» son diventati concetti contraddittori. Si è andati tanto in là, da designare persino come «musicale» un pezzo di musica [11] o addirittura da affermare che un grande compositore come Berlioz non fosse musicale abbastanza (10). «Non musicale» è il biasimo peggiore, esso bolla colui che ne è colpito e lo rende spregevole (11).
In un paese come l'Italia, dove il senso della gioia musicale è generale, la distinzione è superfìua, e la parola per designarla non esiste (12). In Francia, dove il sentimento della musica non vive nel popolo, esistono musicisti e non musicisti. Degli altri alcuni «aiment beaucoup la musique» oppure «ils ne l'aiment pas». Solo in Germania essere musicali, cioè, non solo sentire amore per la musica, ma principalmente comprenderla nei suoi mezzi tecnici d'espressione e ritenerne le leggi, è un punto d'onore.
Mille mani trattengono l'alato fanciullo e sorvegliano benintenzionate i suoi passi, affinché non voli verso l'alto e sia così preservato da una grave caduta. Ma egli è ancora così giovane, ed è eterno; verrà il momento della sua libertà. Quando cesserà d'essere «musicale».

Il sentimento (13) è una questione d'onore e di moralità - come l'onestà - una qualità che nessuno permette gli sia negata; e vale nella vita come nell'arte. Ma se nella vita, grazie a qualche qualità brillante del carattere - per esempio l'ardimento o l'incorruttibilità - la sua mancanza si perdona, nell'arte si pone come la qualità morale suprema.
Però il sentimento (in musica) esige due compagni: il gusto e lo stile. Ora nella vita il gusto si incontra altrettanto di rado che il sentimento vero e profondo, e, quanto allo stile, esso appartiene appunto al campo artistico. Ciò che rimane è una parvenza di sentimento, che bisogna definire sentimentalismo e ampollosità. E questa parvenza si vuole, anzitutto, chiaramente visibile! Sottolineata, sì che ognuno la noti, la veda e la oda. Essa viene proiettata al pubblico su di uno schermo ad alto ingrandimento, sì che balli davanti ai suoi occhi importuna e nebulosa; urlata perché entri nell'orecchio di chi dall'arte è più lontano; dorata perché stupisca i nullatenenti.
Infatti anche nella vita si fa maggior profusione delle espressioni del sentimento negli atteggiamenti e nelle parole; più raro e più autentico è il sentimento che agisce senza parlare, e il più prezioso è quello che si nasconde.
Per sentimento si intende comunemente: espressione tenera, dolente, e sovrabbondante.
E che cosa non racchiude ancora in sé questo fiore meraviglioso! Riservatezza e indulgenza, spirito di sacrificio, forza, attività, pazienza, generosità, giocondità, e quella intelligenza che tutto regge, dalla quale propriamente il sentimento ha origine.
Lo stesso vale per l'arte, la quale rispecchia la vita, e tanto più per la musica, che della vita ripete le sensazioni: nell'arte però devono aggiungersi, come ho sottolineato, il gusto e lo stile; il quale appunto differenzia l'arte dalla vita.
Invece il profano, l'artista mediocre, s'affaticano soltanto alla ricerca del sentimento formato ridotto, del sentimento «al minuto», di breve respiro.
Il sentimento in grande dal profano, dal semi-artista, dal pubblico (e purtroppo anche dalla critica!) è scambiato per mancanza di sensibilità; perché costoro non sono capaci di afferrare vaste linee come parti di un tutto ancora più vasto. Dunque sentimento è anche economia.
Di conseguenza io distinguo: sentimento come gusto - come stile - come economia. Ognuno un tutto, e ognuno un terzo del tutto. E in essi e sopra di essi regna poi una trinità soggettiva: il temperamento, l'intelligenza e l'istinto dell'equilibrio.
Questi sei elementi conducono una danza così sottilmente ordinata nel loro appaiarsi e intrecciarsi, portare e venir portati, farsi avanti e trarsi indietro, muoversi ed arrestarsi, quale è impossibile immaginarsi più ingegnosa.
Se l'accordo formato da queste due triadi è ben intonato, allora può e deve accompagnarsi al sentimento la fantasia: basata su questi sei requisiti, essa non potrà degenerare, e appunto dalla loro unione nasce la personalità. Questa, come una lente, riceve le impressioni luminose, le riflette a suo modo a guisa di negativo fotografico, sì che all'uditore appare l'immagine positiva.
Poiché anche il gusto è uno degli elementi costitutivi del sentimento, questo altera secondo le epoche - come ogni altra cosa - la forma in cui è espresso. Cioè: del sentimento si preferisce, nelle diverse epoche, un aspetto piuttosto che un altro, e quello prescelto si coltiva con cura particolare, si mette più in evidenza.
Così con Wagner e dopo di lui fu la volta di una gonfia sensualità: e presso i compositori d'oggi la forma basata sul crescendo d'intensità emozionale non è ancora superata. Ad ogni inizio tranquillo seguiva un rapido moto ascensionale. Wagner, in ciò insaziabile ma non inesauribile, si trovò nella necessità di ricorrere al ripiego di attaccare di nuovo col «piano» dopo aver raggiunto un punto culminante, per crescere subito ancora.
I francesi moderni tornano indietro: il loro sentimento è riflessiva castità, forse piuttosto sensualità trattenuta: ai montuosi sentieri in salita di Wagner hanno fatto seguito monotone pianure di una crepuscolare uniformità.
Così si forma nel sentimento lo «stile», quando il gusto lo guida.

Gli «Apostoli della Nona Sinfonia» inventarono nella musica il concetto di profondità. Esso possiede ancora tutto il suo valore, specialmente in Germania. - Esiste una profondità del sentimento e una profondità del pensiero: quest'ultima è letteraria e non può trovar la sua applicazione nei suoni.
La profondità del sentimento, invece, appartiene all'anima e con ciò, senz'altro, alla natura della musica.
Della profondità in musica gli Apostoli della Nona Sinfonia danno una valutazione speciale e non chiaramente definita.
La profondità diventa per loro estensione, si cerca di raggiungerla per mezzo della pesantezza: essa si manifesta in seguito - per associazione di idee - nella preferenza per i registri «bassi» e (come ho avuto l'occasione di osservare) anche nell'introdurre un secondo significato, nascosto, per lo più letterario.
Se non tutte, certo queste ne sono le caratteristiche più importanti.
Eppure ogni amico della filosofia dovrebbe intendere per profondità del sentimento quel che nel sentimento è di più perfetto: l'immedesimarsi completamente in uno stato d'animo.
Poiché anche il gusto è uno degli elementi costitutivi del sentimento, questo modifica secondo le epoche - come ogni altra cosa - la forma in cui nare dalla forza autosatirica delle maschere e delle smorfie, dalla vittoria della sfrenatezza sulle leggi, dal tratto vendicativo della beffa cui è dato libero corso: costui si mostra incapace di calarsi nella profondità dei sentimenti.
E così si conferma che la profondità del sentimento ha le sue radici nella piena comprensione di ogni stato d'animo - anche del più volubile - e la sua fioritura nella sua capacità espressiva: mentre la comune concezione del sentimento profondo mette in luce solo un lato del sentimento umano e ne fa una specializzazione.
Nell'aria del vino del Don Giovanni c'è più profondità che in parecchie marce funebri e notturni: la profondità del sentimento si esprime anche nel non sperperarlo nel secondario e nell'insignificante. (Da qui anche nella I ediz.)

L'artista creatore non dovrebbe accettare alcuna legge tradizionale a occhi chiusi bensì considerare a priori la propria opera come un'eccezione. Dovrebbe cercare una legge propria e adeguata al suo caso, la dovrebbe formulare e poi di nuovo distruggere, dopo la prima applicazione perfetta, per non cadere lui stesso in ripetizioni all'opera successiva.
Il compito del creatore sta nel dettar leggi e non nel seguirle. Chi segue leggi date cessa di essere un creatore [12].
La forza creativa è tanto più facilmente riconoscibile quanto più sa rendersi indipendente dalla tradizione. Ma non è con l'evitare le leggi di proposito che si dà l'illusione della forza creativa, tanto meno la si genera.
Il vero creatore, in fondo, tende solo alla compiutezza. E mentre egli la armonizza con la sua propria individualità, una nuova legge sorge spontaneamente.

Lo routine (15) è molto apprezzata, spesso richiesta: la "professione" musicale la esige. Che nella musica la routine possa esistere e che, come se non bastasse, possa richiedersi come condizione dell'esser musicista, dimostra però ancora una volta quanto i limiti della nostra arte siano angusti. Routine significa: essere arrivati a possedere alcune esperienze e alcuni artifici e saperli adoperare ad ogni evenienza. Dunque ci dev'essere un numero di casi analoghi sorprendente. Ma a me piacerebbe sognare una specie di attività artistica in cui ogni caso fosse nuovo, una eccezione! Di fronte a questo, l'esercito dei praticoni si troverebbe disarmato e inerte: finalmente dovrebbe battere in ritirata e sparire. La routine trasforma il tempio dell'arte in una fabbrica. Distrugge l'atto del creare. Perché creare significa: generare dal nulla. Invece la routine prospera nell'imitazione. È la «poesia che si lascia commissionare». Domina perché corrisponde alla maggioranza. A teatro, in orchestra, tra i virtuosi, nell'insegnamento. Si vorrebbe gridare: evitate la routine, cominciate ogni volta come se non aveste cominciato mai, e piuttosto pensate e sentite!
Perché vedete, i milioni di melodie che un giorno risuoneranno esistono sin dall'inizio, sono pronte, aleggiano nell'etere, e con loro altri milioni di melodie che non saranno udite mai. Basta tendere la mano ed eccovi un fiore, un soffio d'aria marina, un raggio di sole: evitate la routine perché essa arriva solo a ciò che riempie la vostra stanza, e sempre alle stesse cose: diverrete così pigri che non vi alzerete quasi più dalla vostra poltrona e prenderete solo ciò che vi sta a portata di mano. Mentre milioni di melodie esistono sin dal primo principio e aspettano di manifestarsi!

«La mia disgrazia è di non avere routine», scrisse una volta Wagner a Liszt, quando non riusciva a procedere col Tristano.
Con ciò Wagner ingannava se stesso e si mascherava di fronte agli altri. Di routine Wagner ne aveva anche troppa, e il suo macchinario compositivo si fermava ogni volta che insorgeva uno di quegli intoppi che sono superabili soltanto con l'aiuto dell'ispirazione. Vero è che Wagner li superava in fine, se gli riusciva di mettere la routine da parte; ma se veramente non ne avesse posseduta affatto, lo avrebbe affermato senza amarezza.
Comunque in quella frase si esprime il giusto disprezzo dell'artista per la routine, in quanto egli nega di possedere questa qualità che gli sembra deteriore, e previene la possibilità ch'essa gli venga accreditata. Con ciò egli loda se stesso e si finge ironicamente disperato. È realmen-te infelice nel constatare che la composizione è a un punto morto, ma si consola abbondantemente con la coscienza che il suo genio è al disopra del comodo uso della routine; d'altra parte si atteggia a modesto, ammettendo con dolore di non aver acquisito quella maestria ch'è universalmente apprezzata e pertinente al mestiere.
La sua frase è un capolavoro della naturale scaltrezza dell'istinto di conservazione - ma ci dimostra (e questo è il nostro scopo) il misero luogo che la routine occupa nel processo creativo.

Così angusto è divenuto l'ambito della nostra musica, la forma dell'espressione musicale così stereotipa, che oggigiorno non esiste un motivo conosciuto a cui non si conformi un altro motivo, tanto che potrebbero venir suonati insieme. Per non perdermi ora in giochetti, mi astengo da ogni esempio [13].
Improvvisamente (16) un giorno mi si fece chiaro: lo sviluppo della musica naufraga sui nostri strumenti musicali, lo sviluppo del compositore sullo studio delle partiture. Se «creare», secondo la mia definizione, deve significare «formare dal nulla» (né altro può significare), - se la musica (anche questo ho già detto) deve tendere a tornare all'«originalità», cioè alla sua propria e pura essenza (un «ritorno» che deve essere il vero e proprio passo in avanti); - se deve spogliarsi delle convenzioni e delle formule come di un abito usato e brillare nella sua bella nudità; -a questa aspirazione si oppongono in primo luogo gli strumenti musicali. Gli strumenti sono incatenati alla loro estensione, al loro timbro, alle loro possibilità di esecuzione, e le loro cento catene legano necessariamente anche chi vuol creare.
Vano riuscirà al compositore ogni libero tentativo di volo; nelle più moderne partiture e ancora in quelle del prossimo futuro ci scontreremo sempre con le proprietà dei vari clarinetti, tromboni e violini, incapaci di muoversi al di fuori dei loro limiti [14]. Si aggiungano i manierismi degli strumentisti: il ridondante vibrato del violoncello, l'attacco esitante del corno, l'impacciata asma dell'oboe, la presuntuosa agilità dei clarinetti; e così avviene che, anche in un'opera nuova e più indipendente, si riforma fatalmente la stessa immagine sonora, e anche il più indipendente dei compositori vien trascinato dentro e in fondo a questo cerchio immutabile.
Forse ancora non sono state sfruttate tutte le possibilità nell'ambito di questi confini - l'armonia polifonica dovrebbe poter creare ancora parecchi fenomeni sonori - ma certo l'esaurimento ci attende, in fondo a una strada il cui tratto più lungo è già stato percorso. Dove volgeremo poi lo sguardo, in che direzione ci porterà il prossimo passo?
Io credo: al suono astratto, alla tecnica senza ostacoli, all'illimitatezza dei suoni. Perciò ogni sforzo deve tendere a che sorga verginalmente un nuovo inizio.
Colui che sarà nato per creare avrà prima di tutto un compito negativo e di grande responsabilità, quello di liberarsi da tutto ciò che ha appreso e udito, da tutto ciò che è apparentemente musicale; per potere, sgomberato il terreno, evocare in sé un raccoglimento intenso e ascetico che lo renda capace di elevarsi di un gradino, di percepire il mondo sonoro interiore e di comunicarlo all'umanità. L'aureola di personalità leggendaria incoronerà il Giotto di questo musicale Rinascimento. Alla prima rivelazione seguirà un'epoca di religiosa attività musicale, alla quale nessuno spirito corporativo avrà parte, in quanto gli eletti e gli iniziati non potranno non essere riconosciuti, e solo loro ne potranno essere invece i realizzatori. A questo punto splenderà la massima fioritura, forse la prima nella storia musicale dell'umanità. Vedo anche come comincia la decadenza, i puri concetti si confondono e l'Ordine è sconsacrato...
È il destino degli uomini futuri, e noi - oggi - stiamo a loro come la fanciullezza alla vecchiaia.

Ciò che oggi più si avvicina all'essenza originaria della musica sono la pausa e la corona. Grandi esecutori e improvvisatori sanno usare di questi mezzi espressivi nella misura più alta e più generosa. Il teso silenzio tra due frasi, in tale contesto musica esso stesso, fa presentire molto più in là che non un suono più definito, sì, ma appunto perciò meno duttile.
«Segni» e nient'altro che segni è anche ciò che oggi chiamiamo il nostro «sistema tonale». Un espediente ingegnoso per trattenere qualche po' di quell'eterna armonia; una misera edizione tascabile di quell'opera enciclopedica; luce artificiale anziché sole. - Avete osservato come la gente spalanca la bocca quando vede una sala illuminata a giorno? Ma non lo fa mai per la luce meridiana, milioni di volte più forte.
E anche qui i segni sono diventati più importanti di ciò che devono significare, e a cui possono soltanto alludere.
Come sono importanti la «terza» e la «quinta» e l'«ottava». Con quanta severità distinguiamo le «consonanze» e le «dissonanze» - là dove dissonanze non possono nemmeno esistere!
Abbiamo diviso l'ottava in dodici gradi equidistanti, perché dovevamo pure aiutarci in qualche modo, e abbiamo disposto i nostri strumenti in guisa che non possano mai darci dei suoni intermedi. Soprattutto gli strumenti a tastiera hanno abituato a tal punto il nostro orecchio che, all'infuori dei dodici semitoni, tutti gli altri suoni ci sembrano impuri. E la natura ha creato una gradazione infinita - infinita! Chi se ne ricorda più oggi? [15]

E nell'ambito di questa ottava in dodici parti abbiamo segnato ancora una sequenza di distanze, in numero di sette e su questo abbiamo basato tutta la nostra musica. Che dico, una sequenza? Sono due, la scala maggiore e quella minore. Se incominciamo la stessa successione di distanze da un altro dei dodici gradi intermedi, ciò dà una nuova tonalità, anzi una tonalità diversa! Quale sistema forzatamente limitato sia sorto da questa iniziale confusione [16] si può vedere consultando i codici e non staremo a ripeterlo. Noi insegnamo ventiquattro tonalità, dodici volte le due successioni di sette note, ma in realtà disponiamo solo di due, la tonalità maggiore e quella minore. Le altre sono solo trasposizioni. Si pretende che le singole trasposizioni abbiano caratteri differenti; ma è un'illusione. In Inghilterra, dove si usa un diapason più elevato, le opere più conosciute vengono suonate mezzo tono sopra a quello in cui sono state scritte, senza che il loro effetto cambi. Dei cantanti traspongono per comodità loro le loro arie, e fanno suonare ciò che precede e che segue senza trasposizione di sorta.
I compositori di liriche pubblicano non di rado i loro lavori in tre tonalità differenti: i pezzi rimangono in tutte e tre le edizioni esattamente gli stessi.
Se un volto noto ci guarda da una finestra, guardi dal primo o dal terzo piano sarà lo stesso.
Se si potesse innalzare o abbassare un paesaggio, fin dove giunge l'occhio, di parecchie centinaia di metri, lo spettacolo panoramico non ne perderebbe né acquisterebbe nulla.

Come base di tutta la musica si sono poste le due successioni di sette note: il modo maggiore e il modo minore - da una limitazione nasce necessariamente l'altra.

Si è conferito a ciascuno dei due modi un carattere ben definito, si è imparato e insegnato a sentirli come opposti e un po' alla volta essi hanno raggiunto il significato di simboli - maggiore e minore - soddisfazione e insoddisfazione - gioia e lutto - luce e ombra. I simboli armonici hanno recinto l'espressione della musica da Bach fino a Wagner e oltre ancora, fino a oggi, e a dopodomani. Si usa il modo minore con le stesse intenzioni di duecent'anni fa, e con lo stesso effetto. Oggi una marcia funebre non si può «comporre», è già lì una volta per tutte. Anche il profano meno colto sa che cosa l'aspetta quando deve sentire una marcia funebre - una qualsiasi! Persino il profano prevede la differenza tra una sinfonia in maggiore e una in minore (19).

È strano che il maggiore e il minore siano sentiti come opposti. Eppure hanno lo stesso volto; talora più sereno, talora più serio; e una piccola pennellata basta a trasformare l'uno nell'altro. Il passaggio dall'uno all'altro è impercettibile e non costa fatica; se si ripete spesso ed è rapido, i due modi finiscono col balenare l'uno nell'altro in modo inavvertibile. - Se però riconosciamo che maggiore e minore sono due facce di un tutto e che le «ventiquattro tonalità» sono solamente trasposizioni delle prime due, arriviamo di necessità alla coscienza dell'unità del nostro sistema di tonalità. I concetti di affine e di estraneo cadono - e con ciò tutta l'ingarbugliata teoria di gradi e relazioni. Noi abbiamo un'unica tonalità. Ma d'una specie ben misera.

« Unità tonale ».
- «Lei certo intende dire che "la" e "le" tonalità corrispondono al raggio solare e alla sua scomposizione in colori?»
No, non questo. Perché l'intero nostro sistema di toni e tonalità nel suo stesso insieme non è che parziale frammento di un raggio decomposto di quel sole «Musica» ch'è nel cielo dell'«eterna armonia».

Quanto l'attaccamento alle abitudini e la pigrizia fanno parte della natura umana - altrettanto l'energia e l'opposizione ai valori stabiliti sono le qualità di ogni essere vivo. La natura ha le sue astuzie e trascina gli uomini, gli uomini che recalcitrano di fronte al progresso e al mut-mento; la natura procede continuamente e muta senza posa, ma d'un moto così uguale e insensibile, che gli uomini percepiscono solo lo stato di quiete. Solo se si volgono a guardare il passato si accorgono con sorpresa di essere stati ingannati.
Perciò in ogni tempo il «riformatore» provoca risentimento: le sue innovazioni sono troppo immediate, e soprattutto percepibili. Il riformatore - in confronto alla natura - manca di diplomazia, e di consegueza i mutamenti da lui introdotti acquistano validità solo quando il tempo, al suo modo impercettibile e sottile, ha percorso lo spazio ch'egli ha conquistato di sua forza d'un balzo. Pure ci sono dei casi in cui il riformatore è andato di pari passo col tempo, mentre tutti gli altri restavano indietro. E allora bisogna costringere costoro, e a suon di frustate, a varcare d'un balzo il tratto perduto. Io credo che i modi maggiore e minore e i loro rapporti di trasposizione, cioè il «sistema dei dodici semitoni», rappresentino un simile caso di arretratezza.
Che alcuni abbiano già sentito come gli intervalli della serie delle sette note possano venir ordinati (graduati) in modo differente, s'è già visto in momenti isolati di Liszt e, più esplicitamente, nel movimento musicale progressista di oggi. La spinta, l'anelito, l'istinto intelligente vanno in questo senso. Ma non mi sembra che di questi mezzi espressivi superiori si sia formata una visione cosciente e ordinata.
Ho tentato tutte le possibilità di graduazione della successione delle sette note, e mi è riuscito di fissare 113 scale diverse abbassando e innalzando gli intervalli. Queste 113 scale (nell'ottava do-do) comprendono la maggior parte delle «24 tonalità» conosciute, e in più una serie di nuove tonalità di carattere proprio. Ma con ciò il tesoro non è ancora esaurito, perché è possibile la trasposizione di ogni singola di queste 113 scale e inoltre la mescolanza di due (o perché non anche di più?) di queste tonalità nell'armonia e nella melodia.
La scala do, re bem., mi bem., fa bem., sol bem., la bem., si bem., do suona già ben diversa dalla scala di re bem. minore, se consideriamo tonica il do. Se poi a sostegno armonico le mettiamo il consueto accordo di do maggiore, ne risulta una sensazione armonica nuova. Ma si ascolti la stessa scala sostenuta volta a volta dall'accordo di la minore, di mi bem. maggiore e di do maggiore, e non si potrà far a meno di restare gradevolmente sorpresi della strana eufonia che ne risulta.
Ma come inquadrerebbe il legislatore nel suo sistema le scale: do, re bem., mi bem., fa bem., sol, la, si, do / do, re bem., mi bem., fa, sol bem., fa, sol bem., la, si bem., do / o addirittura: do, re, mi bem., fa bem., sol, la diesis, si, do / do, re, mi bem., fa bem., sol diesis, la, si, do / do, re bem., mi bem., fa diesis, sol diesis, la, si bem., do?
Non possiamo giudicare sin d'ora quali ricchezze di espressioni armoniche e melodiche si offrano con ciò all'orecchio, ma senza dubbio dobbiamo ammettere una quantità di possibilità nuove, riconoscibili di primo acchito.

Dopo questa esposizione si dovrebbe dare l'unità tonale per definitivamente dimostrata. Un caleidoscopio, dove nella camera a tre specchi del gusto, della sensibilità e dell'intenzione, vengono agitati alla rinfusa dodici semitoni: ecco l'essenza dell'odierna armonia.

Dell'armonia odierna, e non per molto tempo ancora: perché tutto annunzia una rivoluzione e un prossimo passo verso quella «eterna». Rendiamoci conto ancora una volta che in questa la graduazione dell'ottava è infinita e sforziamoci di avvicinarci all'infinito almeno di un poco. Il terzo di tono batte già da un po' alla porta, e noi non gli diamo ancora ascolto. Chi come me ha fatto in proposito degli esperimenti, per quanto modesti - sia con l'ugola che su di un violino - includendo in un tono intero due suoni intermedi ugualmente distanti, e si è esercitato a trovarli sullo strumento e a sentirli, costui sarà arrivato alla convinzione che i terzi di tono sono degli intervalli assolutamente indipendenti, di un carattere ben definito, da non confondere per nulla con semitoni stonati. È questo un cromatismo raffinato che ci sembra, oggi come oggi, basato sulla scala esafonica. A volerlo adottare integralmente dovremmo rinnegare i semitoni, perderemmo la "terza minore" e la «quinta giusta», e questa perdita sarebbe sentita più fortemente che non il corrispettivo acquisto di un sistema di «diciotto terzi di tono».
Ma di rinunciare per questo ai semitoni non si vede il motivo. Se accanto ad ogni tono intero conserviamo un semitono, otteniamo una seconda serie di toni mezzo tono sopra la prima. Dividiamo questa seconda serie di toni interi in terzi di tono, e per ogni terzo di tono della serie inferiore otterremo un corrispondente semitono in quella superiore.
Così è sorto, propriamente, un sistema di sesti di tono, e possiamo esser certi che anche i sesti di tono diranno la loro parola. Il sistema tonale che sto delineando deve però prima abituare l'orecchio ai terzi di tono, senza rinunciare ai semitoni.

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Per concludere: o poniamo due successioni di terzi di tono distanti l'una dall'altra di un semitono, oppure: tre volte la solita successione di dodici semitoni a distanza di un terzo di tono.
Chiamiamo, per distinguerle in qualche modo, la prima nota DO e i due seguenti terzi di tono DO diesis e RE bemolle; il primo semitono do (minuscolo) e le seguenti sue terze parti do diesis e re bemolle: l'esempio musicale spiega tutto ciò che manca (20).

Ritengo il problema della notazione secondario. Importante invece, e impellente, è la domanda come e donde queste note si possano produrre. Fortunatamente mentre mi sto occupando di questa questione ricevo direttamente dall'America una notizia autentica, che risolve il problema nel modo più semplice. È la notizia dell'invenzione del dott. Thaddeus Cahill [18].
Quest'uomo ha costruito un grande apparecchio che permette di trasformare una corrente elettrica in un numero di vibrazioni esattamente calcolato, inalterabile. Poiché l'altezza del suono dipende dal numero delle vibrazioni, e l'apparecchio si può regolare in modo da ottenere qualsiasi numero di vibrazioni si voglia, ne risulta che l'infinita graduazione dell'ottava è semplicemente l'opera di una leva che corrisponde all'indice di un quadrante.
Soltanto esperimenti coscienziosi e lunghi e una continua educazione dell'orecchio renderanno questo straordinario materiale maneggevole ai fini dell'arte e lo metteranno a disposizione della generazione a venire.

Che belle speranze e quali visioni di sogno si destano per l'arte! Chi non ha già "volato" in sogno? E non ha fermamente creduto di vivere il suo sogno? - Proponiamoci dunque di ricondurre la musica alla sua essenza primitiva; liberiamola dai dogmi architettonici, acustici ed estetici; facciamo che sia pura invenzione e sentimento nell'armonia, nella forma e nei timbri (perché invenzione e sentimento non sono solo un privilegio della melodia); facciamo che segua la curva dell'arcobaleno e interrompa a gara con le nubi i raggi del sole; non sia altro che la natura rispecchiata nell'anima umana e da lei riflessa; essa è infatti aria che vibra e va più in là dell'aria; altrettanto universale e completa nell'uomo che nello spazio poiché può ripiegarsi su se stessa e scorrere libera senza diminuire d'intensità.

Nel suo libro Al di là del bene e del male Nietzsche scrive:

«Credo necessarie diverse precauzioni di fronte alla musica tedesca: posto che si ami il Mezzogiorno come lo amo io, quale una grande scuola di risanamento in ciò che v'è di più spirituale e in ciò che v'è di più sensuale, come una sfrenata pienezza di sole, un'apoteosi di sole che si dispiega su di una esistenza sovrana e piena di fede in se stessa: un tal uomo dovrà guardarsi un poco dalla musica tedesca perché essa, rovinandogli il gusto, gli rovina anche la salute.
Un simile uomo del Sud - tale non per origine ma per fede -, sogna il futuro della musica deve sognare anche la liberazione di questa dal Nord, e aver nell'orecchio il preludio di una musica più profonda, più potente e forse anche più cattiva e misteriosa; di una musica sovratedesca, che non svanisca e ingiallisca e impallidisca al cospetto del mare azzurro e voluttoso e della chiarità del cielo mediterraneo, come a quella tedesca accade, per ogni musica deve pensare a una musica sovraeuro-pea, che dia ragione dei bruni tramonti del deserto, la cui anima sia parente alla palma, e sappia trovarsi a suo agio e trascorrere tra grandi, belle e solitarie belve.
Io potrei pensare una musica, il cui più strano incanto stesse nel non saper più nulla del bene e del male, solo qua e là potrebbero sfiorarla qualche nostalgia di navigante, qualche ombra dorata, qualche dolce debolezza: un'arte che vedesse rifugiarsi in sé, provenienti da grandi lontananze, i colori di un mondo morale in declino divenuto quasi incomprensibile, e fosse tanto generosa e profonda da accogliere in sé questi tardi fuggiaschi...»

E Tolstoj fa diventare sentimento musicale un'impressione paesaggistica quando in Lucerna scrive:

«Né sul lago, né sui monti, né in cielo è una sola linea diritta, un solo colore puro, un solo punto di sosta - dappertutto moto, irregolarità, abitrio, varietà, un infinito confondersi di ombre e di linee, e dappertutto il riposo, la morbidezza, l'armonia, la necessità del bello.»
Si raggiungerà mai questa musica?
«Non tutti raggiungono il Nirvana; ma chi, dotato sin dal principio, impara tutto ciò che bisogna conoscere, esperimenta tutto ciò che bisogna sperimentare, abbandona ciò che bisogna abbandonare, sviluppa ciò che bisogna sviluppare, realizza ciò che bisogna realizzare: costui arriva al Nirvana". (Kern: Storia del buddismo in India).
Se il Nirvana è il regno «al di là del bene e del male», qui è indicata una strada che muove in quella direzione. Fino alla porta. Fino al cancello che separa uomini ed eternità - o che si apre per accogliere ciò che è passato di vita terrena. Al di là della porta risuona la musica. Non l'arte dei suoni.
Forse noi stessi dobbiamo lasciare la terra prima di poterla percepire. Ma solo al pellegrino che per via ha saputo spogliarsi dei legami terreni il cancello si apre.


IL REGNO DELLA MUSICA
(epilogo della nuova estetica) (21)

Venite, seguitemi nel regno della musica. Il cancello che divide il terrestre dall'eterno è qui.
Avete disciolto e gettato via le catene? Allora venite. Non è come quando, una volta, entrammo in un paese straniero; e presto vi apprendemmo tutto, e nulla ebbe più a sorprenderci. Qui lo stupore non avrà fine, e sin dal principio ci sentiremo di casa.
E ancora, non udrete nulla, perché tutto risuona. E già cominciate a distinguere. Tendete l'orecchio, ogni stella ha il suo ritmo, ogni mondo la sua battuta. E su ogni stella e su ogni mondo il cuore d'ogni singolo vivente batte diversamente dall'altro, giusta una legge sua propria. E tutti i battiti s'accordano, e sono una sola cosa, e un tutto.
Il vostro orecchio interno si fa acuto. Udite i bassi e gli acuti? Sono incommensurabili come lo spazio, infiniti come il numero. Al modo di nastri si traggono, inopinate scale, da un mondo all'altro, fissi in moto eterno. Ogni suono è centro di cerchi non misurabili.
Ed ora vi si manifesta il suono! Innumerevoli sono le sue voci, paragonati ad esse è il sussurro delle arpe un fracasso, lo squillo di mille tromboni un pigolìo.
Tutte, tutte le melodie dapprima udite e inaudite risuonano senza eccezione e ad un tempo, vi trasportano, impendono su di voi, vi sfiorano - melodie dell'amore e della passione, della primavera e dell'inverno, della malinconia e della sfrenatezza -, sono esse stesse gli animi di milioni d'esseri di milioni d'epoche. Avvicinatene una all'occhio, vedrete come è congiunta con le altre, combinata con tutti i ritmi, colorata di tutti i colori, accompagnata da tutte le armonie, sino al fondo d'ogni fondo, sino all'arco d'ogni vòlta dei cieli.
Ora intendete come pianeti e cuori siano una cosa e insieme e non mai e in nessun luogo possa darsi una fine, in nessun luogo un ostacolo; che nello spirito dell'essere l'infinito vive completo e indiviso; che ogni cosa è al tempo stesso infinitamente grande e infinitamente piccola; e che luce, suono, moto, energia sono identici, e che ognuna di queste cose per sé e tutte riunite sono la vita.

Dayton, 3 marzo 1910

 

NOTE DEL CURATORE (...)

(*) Entwurtf einer neuen Asthetik der Tonkunst.

I edizione presso Carlo Schmidl, Trieste, 1907 (in calce a due libretti d'opera di Busoni: "Der mächtige Zauberer" - "Il mago possente", non musicato; ne è tratto il primo dei molti che precedono questo saggio - e "Die Brautwahl" - "La sposa sorteggiata", composta nel 1907-10, 1ª rappresentazione: Amburgo 1912); II edizione ampliata Insel-Verlag, Lipsia, 1910 (in realtà 1916), ristampata più volte. Nel 1974 l'Insel-Verlag ne ha inoltre pubblicato un fac-simile della copia appartenuta a Schoenberg, con copiose note in margine dello stesso, a cura di H.-H. Stuckenschmidt. Busoni stesso ne adattò in italiano alcune parti in due scritti intitolati "Cenni di una nuova estetica musicale" e "Libertà della musica (cenni di una nuova estetica della musica)" per la rivista "Harmonia" di Roma (ottobre e novembre 1913). L'opuscolo ebbe una prima trad. italiana, parziale, a cura di Gian francesco Trampus sul "Radiocornere", Torino, 1935, nn. 34-36 (18 e 25 agosto, 1º settembre), col titolo "Saggio di una nuova estetica dell'arte dei suoni", quindi una più ampia in R.121. La presente traduzione segue la II edizione originale, e si dà conto in nota delle aggiunte e varianti degne di rilievo.

(**) "Ein Brief" [di Lord Chandos]. È un'aggiunta della II edizione.

(1) Dal Faust, parte II, atto III, vv. 9955/61: è il commento di Forciade alla scomparsa di Elena e Faust.

(2) In Aforismi mozartiani cfr. Lo sguardo lieto a pag. 295.

(3) Eduard Hanslick (1825-1904), qui evidentemente citato piú che per la lunga e rilevantissima attività di critico musicale, per il giovanile opuscolo sul «bello musicale» (Vom Musikalisch-Schonen, I vers. 1854, ripetutamente tradotto anche in italiano), presto divenuto, grazie anche a notevoli fraintendimenti, il faro di tutte quelle tendenze estetiche che negano alla musica la capacità di esprimere sentimenti o di «rappresentare» alcunché.

(4) Nella I ed. quanto segue è preceduto da: «Possiamo aggiungere diverse considerazioni secondarie».

(5) Aggiunta alla seconda edizione.

(6) Da qui per otto capoversi (sino a «metà del lavoro lui stesso») solo nella II edizione. Il passo fu anche pubblicato nella «Vossische Zeitung», Berlino, marzo 1913, col titolo «Von der Zukunft der Oper» («Dell'avvenire dell'opera»), quindi in B.189 e in H.61.

(7) Nel suddetto estratto intitolato «Von der Zukunft der Oper» a questo punto segue: «Invece si dovrebbe pensare ad una forma di azione accompagnata dalla musica e illustrata dal canto, senza testo verbale: ne risulterebbe una specie di 'pantomima cantata'».

(8) Da qui alla fine della nota, solo nella II edizione.


(9) Aggiunta alla II edizione.

(10) Nella I edizione seguiva: «"Il mio cane è molto musicale", m'ha detto qualcuno in tutta serietà. Metteranno il cane al disopra di Berlioz?».

(11)Nella I ed. seguiva: «Un destino che ha colpito anche me».

(12) Oggi l’affermazione di Busoni non è più vera: da gran tempo il termine è divenuto abituale anche in Italia, appunto nell’accezione in cui Busoni lo deprecava. 

(13) Da qui per 25 capoversi (sino a «nel secondario e nell'insignificante») solo nella II edizione Quanto ai primi 10 capoversi (sino a «non si può immaginare gioco piú ingegnoso») si trovano già in una lettera indirizzata, nel gennaio 1909 ad un critico della «Signale für die musikalische Welt» di Berlino, che aveva giudicato sfavorevolmente un concerto di Busoni. La lettera, riprodotta in B.99 col titolo Offene Entgegnung (Lettera aperta) comincia: «Stimatissimo signore ed amico non avevo ancora letto la Sua critica al primo dei miei concerti dedicati a musiche di Liszt allorché annotai, insieme con altre aggiunte per una nuova edizione della mia Estetica, i seguenti pensieri. Essi sono in certo senso una risposta alla Sua critica». Segue il brano che torna nel saggio, quindi la lettera conclude: «Non è giusto sprecare il sentimento in particolari insignificanti e accessori. Per quel che riguarda la mia interpretazione dello spirito lisztiano, è naturale ch'esso si fonda con la personalità mia nella misura in cui io una personalità possegga. Posso però riferirLe con gioia che valenti allievi di Liszt (tra i quali i due ch'Ella mi nomina) hanno spesso riconosciuto con commozione come il mio istinto avesse incontrato le intenzioni del maestro. Troppo prezioso è il Suo giudizio perch'io possa passarlo sotto silenzio; perciò m'è parso opportuno indirizzarLe questa risposta come segno della mia stima. Mi creda Suo affezionatissimo Ferruccio Busoni».

(14) Aggiunta nella II edizione. Ignoriamo a quale drastico detto italiano alluda.

(15) Da qui per 6 capoversi (sino a «la routine nel processo creativo») solo nella II edizione. Un'altra versione di questo frammento, col titolo Routine, è in B.167, e ne Lo sguardo lieto a pag. 90.

(16) Di qui sino allo spazio («la fanciullezza alla vecchiaia») aggiunta nella II edizione.

(17) In tedesco «Werkmeister» (sic) vale capo-operaio, capo-fabbrica e simili. Quanto al fatto ehe l'inventore del temperamento equabile, cioè del principio di eostruire strumenti costruiti con l'ottava divisa in dodici semitoni tra loro equivalenti, fosse Andreas Werckmeister (1645-1706), la tradizionale affermazione raccolta dal Riemann si considera oggi superata.

(18) Ovviamente un'aggiunta alla II edizione.

(19) Nella I edizione seguiva: «Noi siamo governati dal maggiore e dal minore, siamo nelle mani di due mogli».

(20)

http://www.rodoni.ch/busoni/estetica/ex2.jpg

(21) Da qui fino alla fine, solo nella II edizione.


NOTE DI BUSONI [...]

[1] Tuttavia gusto e personalità ringiovaniranno e si rinnoveranno sempre in esse.

[2] La «tradizione» è la maschera di gesso dell'essere vivente, che - passata, nel corso di molti anni, per le mani di innumerevoli artefici - lascia infine appena intravedere la sua somiglianza coll'originale.

[3] I recitativi delle sue Passioni sono «parlare umano», non «giusta declamazione».

[4] Direi note caratteristiche della personalità di Beethoven: l'impeto poetico, il forte sentire umano (da cui sgorga la sua tendenza rivoluzionaria) e un preannuncio del nervosismo moderno. Queste caratteristiche sono certamente opposte a quelle di un «classico». Oltre a ciò Beethoven non è un «maestro» nel senso di Mozart o dell'ultimo Wagner, appunto perché la sua arte è il presagio di un'arte piú grande non ancora interamente compiuta. (Si confronti il prossimo capoverso).

[5] «... Beethoven, i cui schizzi tematici o elementari sono innumerevoli ma che una volta trovati i temi, sembra con ciò averne stabilito tutto lo sviluppo.»Vincent d'Indy, in César Franck.

[6] Cfr. piú sotto quanto si dice della «profondità». (Ricordiamo che il tedesco "tief", oltre che "basso", vale "profondo", anche in senso figurato.)

[7] Da Offenbach, Les contes d'Hoffmann. (5)

[8] Quanto la notazione influisca sullo stile nella musica e incateni la fantasia come da essa si costituisse la «forma» e dalla forma sorgesse il «convenzionalismo» dell'espressione, tutto ciò si mostra con tragica evidenza in E.T.A. Hoffmann, che mi occorre ora alla mente come un esempio tipico.
Le fantasticherie di quest'uomo singolare, che si perdevano in un'atmosfera di sogno e navigavano nel trascendente, come i suoi scritti spesso inimitabilmente dimostrano, a fil di logica avrebbero dovuto trovare il loro linguaggio adatto e la loro efficacia nella sognante e trascendentale arte dei suoni. I veli del misticismo, l'interna risonanza della natura, il brivido del soprannaturale, la crepuscolare indeterminatezza delle immagini, sempre oscillanti in una specie di dormiveglia, tutto ciò che con la precisa parola egli espresse con tanta efficacia, tutto ciò - si penserebbe - egli avrebbe potuto veramente far vivere per mezzo della musica. Si confronti invece la miglior opera musicale di Hoffmann col piú debole dei suoi lavori letterari e si constaterà, con tristezza, come un tradizionale sistema di battute, periodi e tonalità - su cui pesa ancora il comune stile operistico dell'epoca - potesse fare del poeta un filisteo.Ci risulta invece da molte osservazioni, e spesso eccellenti, dello scrittore stesso, come egli vagheggiasse un ideale di musica ben diverso. E tra queste (8) all'ordine d'idee del presente opuscolo s'avvicina soprattutto la seguente: «Orbene! L'anima cosmica, che tutto permea, ci sospinge sempre piú lontano, piú lontano; non mai ritornano le figure scomparse quali si mossero nella gioia di vivere: ma eterno, immortale è il vero, e una meravigliosa comunanza spirituale avvolge con il suo misterioso legame passato, presente e futuro. Ancora vivono in ispirito i grandi maestri antichi, i loro canti non si sono spenti: soltanto, nel rombo e nello scrosciante frastuono della selvaggia follia che s'è precipitata su di noi non vengono piú percepiti. Possa non esser piú lontano il tempo in cui si compirà la nostra speranza; possa incominciare una vita pia nella pace e nella gioia e la musica muova libera e potente le sue serafiche ali, per incominciare di nuovo il suo volo verso l'aldilà che è la sua patria, e da cui conforto e salvezza scendono negli inquieti petti degli uomini.» (E.T.A. Hoffmann, I fratelli di Serapione).

[9] Nell'introduzione dell'autore a un concerto dato a Berlino nel novembre 1910 (Cfr. Lo sguardo lieto, pag 217) si leggeva: «Per rialzare la natura della trascrizione a dignità d'arte nella considerazione del lettore con un colpo decisivo basta fare il nome di J.S. Bach. Egli fu uno dei trascrittori piú fecondi di lavori suoi e altrui, e precisamente nella sua qualità di organista. Da lui ho appreso a riconoscere la verità che una musica buona, grande, "universale", resta la stessa qualunque sia il mezzo attraverso cui si faccia sentire. Ma anche una seconda verità, che mezzi diversi hanno un linguaggio diverso, e a loro peculiare, col quale comunicano questa musica in un'interpretazione sempre nuova.» - «L'uomo non può creare, può solo rielaborare ciò che trova sulla terra. » Si rifletta inoltre al fatto che ogni rappresentazione di un'opera a teatro è e deve essere un'elaborazione in parte voluta, in parte derivata dai vari imprevisti che vi portano i tanto numerosi elementi che concorrono allo spettacolo. Non ho ancora mai visto sulla scena un Don Giovanni di Mozart uguale all'altro. Sembra che qui il regista - come nel Flauto magico - trovi una speciale ambizione a variare e a spostare l'ordine delle scene (e con le scene gli avvenimenti). E non ho mai sentito neppure (purtroppo) che la critica si sia ribellata alla traduzione del Don Giovanni in tedesco; anche se la traduzione in genere (e tanto piú in questo capolavoro di fusione tra testo e musica) sia evidente­mente una delle forme di rielaborazione piú pericolosa. (9)

[10] La sola specie di persone che si dovrebbe dire musicale sarebbe quella dei cantanti, perché i cantanti possono «risuonare» essi stessi. Allo stesso modo un clown che a toccarlo emette dei suoni servendosi di qualche trucco dovrebbe chiamarsi un'imitazione di persona musicale.

[11] Una volta di un lavoruccio a quattro mani che io trovavo troppo insignificante un violinista mi disse: «Però sono cosí musicali queste composizioni!»

[12] Pare che Michelangelo abbia detto che chi segue qualcuno non può sorpassarlo. E sull'utile uso delle «copie» c'è un detto italiano molto piú drastico. (14)

[13] Ne tentai una volta uno simile con un mio amico, al fine di stabilire per ischerzo quanti dei pezzi di musica universalmente noti fossero costruiti secondo lo schema del secondo tema dell'adagio della Nona Sinfonia. In pochi istanti avevamo raccolto circa quindici analogie, tutte dei generi più differenti, tra le quali alcune da musica della più bassa lega. E da Beethoven stesso. Il tema del finale della Quinta è forse differente da quello con cui la Seconda inizia il suo allegro? e dal motivo principale del Terzo concerto per pianoforte, stavolta in minore?

[14] E questa è la vittoria di Beethoven, il compositore «moderno» che meno cede alle esigenze degli strumenti. D'altra parte non si può negare che Wagner abbia inventato una scrittura per i tromboni che dopo di lui ha preso nelle partiture dimora stabile.

[15] «Il sistema temperato, studiato teoricamente già intorno al 1500, ma elevato a principio soltanto poco prima del 1700 (per opera di Andreas Werckmeister), divide l'ottava in dodici parti uguali (semitoni, donde «sistema dei dodici semitoni») e ottiene con ciò dei valori di media, che danno intervalli non mai puri, ma tuttavia sopportabilmente adoperabili». (Riemann: Musiklexikon).
Cosí con Andreas Werckmeister, questo caporeparto (17) dell'arte, abbiamo acquistato il sistema dei «dodici semitoni» con tanti intervalli impuri ma passabilmente adoperabili. Ma che cos'è puro e impuro? Il nostro orecchio sente come impuro un pianoforte scordato, in cui forse la scordatura stessa ha dato origine a intervalli «puri». L'accomodante sistema dei dodici semitoni è un espediente di forza maggiore, eppure noi vegliamo affinché le sue imperfezioni siano ben conservate.

[16] Si chiama «trattato d'armonia».

[17] Così scrivevo nel 1906. I dieci anni passati da allora hanno aiutato a educare un pochino il nostro orecchio.
(17)

[18] «New music for an old World. Dr. Thaddeus Cahills Dynamophone, an extraordinary electrical Invention for producing scientifically perfect music by Ray Stannard Baker».
«McClure's Magazine» July 1906- Vol. XXVII, n. 3.
Ecco che cosa racconta Mr. Baker di questo trascendentale generatore di suoni: «L'osservazione che tutti gli strumenti dànno dei suoni imperfetti portò il dott. Cahill a riflettere. Il materiale, le condizioni fisiche, la temperatura, i fenomeni climatici influiscono sull'esattezza di ogni strumento. Il pianista perde il dominio sul suono della corda dal momento in cui il tasto è stato colpito. Nell'organo il sentimento nulla può aggiungere alla nota. Il dott. Cahill ha concepito l'idea d'uno strumento che potesse dare all'esecutore un controllo assoluto su ogni suono e sulla sua espressione. Egli è partito dalle teorie di Helmholtz, che gli hanno insegnato come i rapporti fra il numero e il volume dei suoni armonici e il suono fondamentale siano decisivi per il timbro caratteristico di ogni singolo strumento. Di conseguenza nella sua costruzione ha aggiunto all'apparecchio che dà il suono fondamentale una serie di apparecchi supplementari, ognuno dei quali produce uno dei suoni armonici, e cosí ha potuto sommar questi al suono fondamentale nell'ordine e forza che piú gli piacessero. Così ogni suono è capace della caratterizzazione piú varia, la sua espressione può venir regolata dinamicamente con la massima sensibilità e la forza può essere portata da un pianissimo quasi impercettibile a una potenza di suono intollerabile. E poiché lo strumento viene messo in azione da una tastiera, gli rimane conservata la possibilità di piegarsi alla personalità di un artista.
Con una serie di simili tastiere, suonate da parecchi esecutori, si può formare un'orchestra.
La costruzione dello strumento è straordinariamente complicata e costosa, e il suo valore pratico si può ragionevolmente mettere in dubbio. Per trasformare le onde elettriche in onde sonore, l'inventore ha adottato il diaframma telefonico. Grazie a questa felice trovata è stato possibile inviare i suoni dell'apparecchio da una centrale a tutti i posti collegati con linee telefoniche, anche a grande distanza; ed esperimenti ben riusciti hanno dimostrato che i suoni nulla perdono per questo delle loro finezze o della loro forza. L'ambiente collegato si riempie miracolosamente di suono, un suono scientificamente perfetto che non viene mai meno, invisibile, prodotto senza fatica e instancabile. Sono allegate alla relazione da cui tolgo queste notizie delle fotografie autentiche dell'apparecchio, che tolgono ogni dubbio intorno alla realtà di questa creazione quasi incredibile. L'apparecchio ha l'aspetto di una sala macchine».

[19] Qui Nietzsche cade in una contraddizione: prima sogna una musica forse più «cattiva»; ora immagina una musica che «non sappia nulla del bene e del male» - per la mia citazione, però, ha importanza quest'ultimo significato.

[20] Quasi per un'intesa, Mr. Vincent d'Indy mi scrive in questi giorni (1906): «... lasciando da parte le contingenze e le piccinerie della vita per volgere costantemente lo sguardo a un ideale che non si potrà mai raggiungere, ma a cui è lecito avvicinarsi».

[21] Mi pare di aver letto che Liszt limitò la sua Dante-Symphonie ai due tempi «Inferno» e «Purgatorio», «perché il nostro linguaggio sonoro non è sufficiente a esprimere le beatitudini del Paradiso».

 

 

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