Storia di un'adolescenza

Pietro De Luigi on web

 

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Il testo di una testimonianza tenuta ad un gruppo di giovani della parrocchia di S. Maria del Sole di Lodi, il 22 novembre 1995, su amichevole richiesta di don Diego Furiosi

 

STORIA DI UN'ADOLESCENZA 

(Il problema religioso dai 12 ai 17 anni e la "conversione")

 

Cercalo (Dio) estraendolo fuori da te stesso e impara chi sia che si appropria di tutto in te e dice: Mio Dio, mio Spirito (nous), mio Intelletto, mia Anima, mio Corpo, e impara donde vengano dolore e gioia e amore e odio e il non voluto destarsi e la non voluta sonnolenza e la non voluta ira e il non voluto amore. E se li studi attentamente, lo troverai in te stesso, l'Uno e il Molto, conforme a quel puntino nel quale egli trae da te stesso la sua origine. (Monoimo, da Ippolito, Elenchos, VIII, 15)

 

Introduzione

Innanzitutto la presunzione che la storia della mia vita possa avere un significato utile anche per gli altri non è affatto mia. Lascio a don Diego Furiosi la responsabilità di quanto per la vostra "edificazione" mi sta facendo fare. Per conto mio ritengo che solo certi particolari possono eventualmente giovare, adattandosi ad un confronto utile, come analogie. Un famoso filosofo diceva che anche gli errori degli altri possono essere un faro per noi.

Secondariamente un tratto di vita per me così importante ma così lontano nel tempo si presta, passati quasi vent'anni, ad interpretazioni anche diverse. Voglio dire che potrei leggere i miei fatti, l'esperienza che ho vissuto filtrandola con altre categorie. Senz'altro lo farei se parlassi con persone più adulte. Ma oggi mi atterrò abbastanza fedelmente a quanto pensavo "allora" della mia vita, per le cose che riuscivo a capire in base alle mie qualità di allora.

Fortunatamente ho buona memoria, in particolare per ciò che riguarda i miei pensieri.

Il problema è dare alla mia storia una certa plausibilità.

Dovrò allora iniziare un resoconto di quello che ero, facevo e pensavo, perché la conversione oltretutto riguarda la vita interiore e la comprensione di questa richiede molti presupposti, perché la vita interiore è un po' come il concentrato, la sintesi ad un livello "riflesso", pensato, di tutto ciò che siamo.

La conversione, inoltre, spesso è inconcepibile senza il concetto di crisi. La crisi è una difficoltà, una congiuntura, un momento difficile, "critico" appunto. La parola deriva dal greco, dove krisis significa separazione, scelta, giudizio, dal verbo krino, io giudico. Abbiamo qui due significati, uno ordinario ed uno etimologico; mettendoli insieme vien fuori uno stato di difficoltà, un intoppo problematico che richiede una decisione. Naturalmente tutta la vita consiste di crisi e di decisioni, questa è una legge generale da tenere sempre ben presente, perché ci si può fare l'illusione che, presa una bella risoluzione, la decisione perfetta, tutto vada a posto per sempre e si abbiano soltanto "rose e fiori". La conversione è certo una decisione, o un'illuminazione o una grazia o tutte queste tre cose insieme, che pone termine ad una crisi particolarmente grave, ma con ciò non toglie alla vita l'aspetto generale per il quale possiamo dire che essa è un dinamismo continuo di morte e di rinascita - detto metaforicamente - oppure un processo continuo di difficoltà e successi, di oscurità e di chiarezza, di sistole e diastole, come il battito del cuore o il respiro che fa vivere. Non ci si può tirare fuori da questa naturale polarità che appartiene in proprio alla vita, al suo andamento. Attraverso crisi e superamenti di crisi costantemente la vita cresce, si sviluppa, noi ci realizziamo. Non si può evitare di giocare se stessi dentro questo gioco, è il prezzo e, direi, il dono della vita. Altrimenti la vita si paralizza.

La conversione in particolare, essendo un cambiamento molto profondo, segue spesso un processo di crisi particolarmente grave e profonda o con radici lontane nel tempo. Naturalmente nella crisi giocano un ruolo molto forte anche tutti i fattori psicologici che riguardano in generale la personalità di un individuo, per cui una lettura completa, globale di una esperienza così coinvolgente come la conversione dovrebbe tenere conto anche di quelli. Ma la prerogativa della crisi "metafisica" - chiamiamola così - cui segue la conversione, rispetto ad una crisi della crescita o della personalità, quale potrebbe essere una nevrosi, un esaurimento, ecc., è che stabilisce una certa indipendenza rispetto a fenomeni che rientrano nel normale quadro clinico delle patologie psichiche. Indiscutibilmente è impossibile trascendere l'universo onnicomprensivo della psiche umana, ma ciò non toglie che la crisi "metafisica" abbia un suo "proprium", spesso indipendente da situazioni contingenti o pregresse di tipo clinico. Riguarda poco il proprio sentirsi più o meno adeguato rispetto a certi compiti e ruoli - scolastici o affettivi che siano - dipende poco dal sentirsi amato, accettato in famiglia o riconosciuto dai propri amici o dal proprio partner. E' una crisi in certo senso autonoma quasi rispetto a tutto, ma che riguarda praticamente tutto; in primo luogo, e consapevolmente, il proprio modo di vedere la vita, il senso generale della vita. Per lo meno nel mio caso.

Tuttavia parlare di senso della vita può sembrare qualcosa di molto astratto. Allora per spiegarmi sono costretto a portare del materiale che mi riguarda personalmente, partendo un po' da lontano.

 

Inizi

In una vecchia agenda del 1973, che proteggevo gelosamente dagli sguardi "indiscreti", ci sono annotazioni sparse, occasionali, che risalgono alla mia adolescenza. Attraverso di esse posso ricostruire il trend delle mie vicissitudini interiori. La prima è una paginetta che risale al fiore dei miei dodici anni, quando ero in seconda media. E' un po' ridicola per quell'età, "quasi troppo seria", ma denota i problemi che mi accingevo ad affrontare.

[Tenete conto che provengo da una famiglia piuttosto indifferente a preoccupazioni di tipo religioso. Non che mancasse una sensibilità per quei problemi. Ricordo ancora certe interessantissime discussioni con mio padre, quando ero molto piccolo, sulla natura di Dio.

 - Ma Dio come è? - gli chiedevo.

 - E' un mistero, chi può dirlo? Dio forse è l'essere, o il tutto. Forse tutti noi siamo una piccola particella, piccole scintille di un essere infinito e potente che è Dio, e Dio agisce attraverso di noi e fa vivere tutte le cose.

Così mi pare che rispondesse una volta in macchina, più o meno. E la cosa incuriosiva me quanto lui, e ciò mi metteva in profonda sintonia con lui. La risposta era tutt'altro che stupida, ma tutto finiva lì. Un'altra volta sempre da mio padre seppi che la teologia era la scienza che studiava Dio. Ebbi un'immensa curiosità di saperne qualcosa di più, pensai che da grande mi sarei interessato di teologia, scoprendo grandi misteri. Ma ora ero troppo piccolo per certe cose.

Per il resto non ebbi un'educazione cristiana vera e propria, anche se feci tradizionalmente la comunione e la cresima, come tutti. Andai per quel che mi ricordo a messa soltanto nelle poche settimane successive alla cresima e alla comunione. Poi basta. Non frequentavo il "catechismo". I miei genitori non andavano a messa e tantomeno mi obbligavano ad andarci, fortunatamente.]

Passando dalle scuole elementari alle medie il bambino esce dall'infanzia, diventa un ragazzo, non è più totalmente dipendente dai genitori. Trova mille cose nuove nel mondo delle amicizie e gli si aprono meravigliose, inaspettate possibilità di esperienza, di attività, di vita; ma, contemporaneamente, smette di vivere in quell'aura magica e ovattata fatta dal nido famigliare. I genitori perdono importanza. Diciamo che si sfuma quel clima da S. Lucia, quell'atmosfera natalizia magica e pervasiva, morbida e luminosa ad un tempo, che prima avvolgeva tutto e poneva ogni cosa al suo giusto posto. Certo i litigi, i dispetti tra fratelli, le disavventure tra amici, le birichinate, oppure i pianti e le disperazioni per piccole ingiustizie non mancano mai. Ma si tratta di parentesi accidentali, increspature di un'acqua sostanzialmente tranquilla e trasparente, poiché si vede il mondo attraverso gli occhi non propri, ma dei propri genitori, o dei propri educatori. Tutto fila liscio, se si ha la fortuna di vivere in una famiglia normale, con delle persone che ti vogliono bene. Invece dopo i dieci anni si diventa indipendenti, e anche sul piano intellettuale abbiamo un corrispondente sviluppo.

Leggo le mie annotazioni, testualmente:

 

Sono del tutto portato a pensare che per costruire una filosofia non possiamo basarci sull'immaterialità, dato che i nostri sensi percepiscono solo sensazioni materiali; potremmo certamente passare all'immaterialità dallo studio dei fenomeni concreti [un'aggiunta successiva con biro di diverso colore dice: "intendo immaterialità come una religione"]. Non sempre i principi della natura concordano con quelli della nostra religione; dunque potremmo pensare che la natura sia una falsità, e che la verità consista nello spiritualismo, o viceversa [cioè che lo "spiritualismo" sia falso e che vere siano soltanto le affermazioni scientifiche, naturali]; cosa che non è possibile dire perché non abbiamo su di ciò alcuna verifica (o quasi). Bisogna quindi basarci sulla materialità del mondo in cui viviamo, per passare poi riflettendo su di essa a concetti immateriali.

 

La cosa principale che emerge da qui è un modo abbastanza preciso di radicalizzare i problemi, con una certa precocità filosofica. (Tra l’altro, conoscevo il significato della parola filosofia. Mia sorella frequentava già il liceo). Ma tutti a quest'età iniziano a fare le proprie scelte - è assai naturale - in modo più o meno riflesso, più o meno condizionato.

Di fronte ad un'alternativa così ben posta, sembra che io scelga, la via "naturalistica". Però mi lascio andare ad un dubbio ancora più profondo, assai simile al dubbio iperbolico di Cartesio. Stiamo ai fatti, con i piedi per terra; sembra più logico, visto che sulle cose dello spirito non sapremmo bene da dove partire. Ma di fronte all'alternativa dico anche, in primo luogo - e questa è un po' un'inutile complicazione del testo - che la natura stessa potrebbe essere "falsa" e di ciò non avrei nessuna prova, come del resto non avrei prova del contrario. Questa radicalizzazione del dubbio è un tratto caratteristico per la mia psicologia, per il mio temperamento, ed è molto importante per quel che riguarda gli sviluppi successivi. Ecco la somiglianza con il dubbio di Cartesio (facendo le debite differenze tra il suo genio, la sua intelligenza e la mia nullità): non solo non possiamo essere certi delle verità dei sensi, poiché essi ci possono ingannare - come a volte capita - ma addirittura, un "dio ingannatore" potrebbe suggerire pensieri che all'uomo paiono evidentissimi, ma veri non sono, condannandolo ad un'eterna illusione. Il dubbio diventa così iperbolico, universale, e si estende a tutto. Tuttavia non si può dubitare di dubitare, e se si dubita si pensa, e se si pensa si è: cogito ergo sum, penso quindi sono. Cartesio parte dalla sua stessa soggettività, dal suo pensare, dal suo dubitare, dal suo esistere personale. Io certo non avevo espresso così bene, con tanto rigore e coerenza e chiarezza i miei problemi. In fondo ho solo scritto su un foglio un pensiero che mi attraversava la mente, ma tuttavia aveva meritato, unico per allora, di essere scritto su quell'agenda. Sta di fatto che le mie riflessioni mi portavano da una parte verso la natura e dall'altra, visto che anche la natura poteva essere "falsa", verso me stesso, verso la mia soggettività - come per Cartesio - verso la certezza di essere qualcosa, una specie di punto di partenza (né, certo, mi precludevo a priori il mondo dello "spirito"). Il parallelo con Cartesio vuole solo significare che i nostri pensieri importanti, anche fossero spezzoni di pensieri, hanno una loro logica, seguono certe vie, certi percorsi quasi obbligati, e, vivendo di questa logica anche inconsciamente, conducono nelle stesse zone (beninteso in modo diverso per ciascuno). Non occorre essere filosofi di professione.

Quell'agenda - nella quale c'era un po' di tutto: disegni, vignette, riassunti scolastici, tentativi narrativi e poetici, qualche schizzo di nudi femminili, segno della pubertà ormai più che incipiente, ecc. - quell'agenda porta i segni di questo duplice orientamento. Tutta una parte è dedicata ad uno studio extrascolastico che mi aveva appassionato a fondo sulla struttura intima della materia, quindi sull'atomo, gli elettroni, i protoni, il fenomeno dell'elettricità, ecc.; dall'altra, ma solo dall'anno successivo, iniziano brevi resoconti e riflessioni su me stesso.

Ecco la prima di queste riflessioni:

 

Non mi conosco ancora bene, però sto cercando di farlo e sto riuscendo. E' meraviglioso conoscere una persona in tutti i particolari e nel modo in cui si compie. Mi piacerebbe molto conoscere molta altra gente, ma non è cosa facile: richiede un notevole sforzo intellettuale e abbastanza dimestichezza con il proprio pensiero.

 

Dimestichezza che evidentemente reputavo di non avere ancora.

Sotto quel testo se ne aggiunge un'altro di questo tenore:

 

Sono passati pochi giorni ed ho già idee ben chiare su ciò che voglio, devo essere, devo avere, devo fare. Parto da ciò che disse Mazzini e che ho letto nel libro di storia: "La vita è una missione per tutti. Per quanto ingrata ecc." [mi pare che il testo dicesse più o meno: "Per quanto ingrata, val la pena di essere vissuta a fondo come un compito al quale non ci si può sottrarre, costi quel che costi". Il significato era questo.]

 

Qui c'è molto ottimismo. Studiavo evidentemente il nostro risorgimento, in terza media, e il clima idealistico di quell'epoca mi aveva fortemente condizionato, agendo come un catalizzatore di energie in quel periodo caratterizzato peraltro da una rinnovata spinta vitalistica verso le amicizie e, naturalmente, anche verso l'altro sesso. Ma si poneva già il tema del "senso" della vita, dell'orientamento di fondo che doveva caratterizzare la mia esistenza. Che cosa essere, che cosa fare di se stessi? Qui ovviamente non decidevo nulla, quanto ai particolari. Ma mi pareva che fosse necessario spendersi per qualcosa, qualcosa che avesse grande valore. Per ora questo qualcosa era indeterminato, non c'era ancora, ma avrebbe dovuto essere la cosa più giusta. In altri termini dovevo prendere in mano la mia esistenza per qualcosa. Era già un risultato. La vita non doveva essere un insieme di azioni scollegate. Certo c'erano tante cose belle di per sé, lo sapevo bene. Le amicizie, i giochi, le vacanze, la musica. Per esempio, studiavo pianoforte con ottimi risultati. In terza media ho dato il "Quinto", l'esame di compimento inferiore di pianoforte, una tappa importante per gli studi musicali. Conoscevo Chopin, Beethoven, Debussy, il grande Bach, e altri. Ognuno di loro era un modo diverso di vedere la vita, meglio, di sentirla filtrandola poeticamente. Io facevo nel mio piccolo, l'esecutore, l'interprete, ciò è diventata anche, in parte, la mia professione. Ma tra Beethoven con il suo modo eroico di sentire la vita e Chopin, intimo e delicato, romanticamente struggente, o Debussy, capace di ritrarre le impressioni più sfuggenti nella loro radice ultima, quasi cogliendole dalla mano di Dio, ebbene, tra tutte queste possibilità, e tutte avevano un grande valore, si poteva fare una scelta? Erano tutti "modi" bellissimi, ognuno di essi poteva appassionarmi a fondo; erano già delle "filosofie". Forse questa era una maniera sbagliata di impostare un problema; problema che, peraltro, in quel periodo non era ancora perfettamente cosciente. Sta di fatto che questi nodi vennero al pettine, ma solo più avanti. Ne riparleremo.

[Penso che anche a voi sia capitato di affrontare un problema simile. Magari in seguito alla visione di un bel film, o dopo una lettura, oppure per un'esperienza molto coinvolgente o per qualcuno che ha fatto breccia nella nostra esistenza. Tutte queste cose possono diventare dei modelli, degli stili di vita. Tutto ciò che ci piace, tutto ciò per cui abbiamo "gusto" è sempre molto importante. Un film, un libro, un disco, una canzone, una persona sono modi di vedere la vita. Essi contengono una progettualità, un ethos, dei simboli, un modo di sentire che possiamo o meno condividere, fare nostro. Sono un patrimonio che ci condiziona e può sorreggere la nostra vita. Spesso pensiamo che la fruizione dell'arte sia un'evasione. E invece siamo sempre noi i protagonisti, siamo noi lì a vivere nelle cose che ci piacciono, e lì forse si nasconde quello che cerchiamo, la nostra parte nascosta, ciò per cui abbiamo antenne e che ci lega profondamente.]

Ma torniamo a me.

La mia vita scorreva tranquilla ed anche la mie "inquietudini" intellettuali non erano altro che "tratti" per i quali avevo "gusto". La mia famosa agenda porta altre impronte dei tredici anni, poi tace fin verso i sedici, diciassette, l'epoca della mia crisi religiosa. Non preoccupatevi, quindi, arrivo con calma ma arrivo. Il testo dice così:

 

Perché l'ideale più giusto è quello tendente alla felicità. Non si può far l'idealista con propri principi, che non si saprà mai se sono esatti. Non si può far l'idealista e lavorare per una vita intera affinché si riesca (il mondo intero) a conseguire quell'ideale [...] Uno può dire: - Ma perché devo lavorare per tutta la vita al fine di inculcare in testa a tutti (è ovvio onestamente) il mio ideale? Come faccio ad essere sicuro che l'ideale prodotto dalla mia mente sia corretto? Non sono io l'intelligenza migliore che ci sia al mondo! In questo mondo non si capisce più niente. Appena si acquisisce una meta si capisce che non si dovrebbe far niente per attuarla.

 

E invece no! la meta migliore è quella che conduce alla felicità vera e propria. E una persona deve sudare perché gli altri l'acquisiscano mentre lui ne rimane privo? No! Non credo che uno acquisirebbe una felicità vera e propria sapendo che nel resto del mondo della gente soffre e muore, ne è privo. Magari nella spensieratezza riuscirebbe a guadagnare una vera felicità, ma non esiste persona che riesca a stare nella spensieratezza tutta la vita. E la felicità non l'hanno coloro che disonestamente riescono a procurarsene una che alla fine non è affatto vera; non sono felici. Dunque bisogna lavorare per la felicità collettiva per avere la propria, perlomeno nei momenti di non spensieratezza (chiarimenti), perché bisogna pensare anche alla propria, di felicità. Dunque le domande che si faceva quell'uomo possono essere appagate da questa risposta: avere una meta e cercare di conseguirla; ma una meta che porti alla felicità propria e degli altri. [...]

Inoltre un uomo deve lavorare perché gli altri ottengano la felicità anche per una legge naturale molto sperimentata che dice che non si fa nulla senza che ci si aspetti qualcosa. Dunque: lavorare per la felicità di tutti anche perché gli altri lavorino per la felicità tua, e incitare gli altri a sudare per la felicità di tutti. Credo proprio che così il mondo potrà assumere un andamento veramente lodevole e potrà essere un mondo felice. Ma quello che mi chiedo è se ciò potrà avvenire, perché non è mai avvenuto sulla faccia della terra quasi per non so quale magia (concetto molto pessimistico). Però, prima di tutto devo riuscire a trovare io una vera e propria felicità, (una spensieratezza che avrebbe bisogno di chiarimenti che non ho voglia di dare anche perché molto difficili).

 

La partenza è interessante perché evidenzia uno stato precedente di contraddittorio interiore. I miei ragionamenti non filano sempre lisci, e do molto da fare a me stesso. Sotto ci sono delle annotazioni successive tipo questa: "Queste idee potranno essere oggetto di molti cambiamenti"; poi questa: "Ricordarsi di scrivere che la felicità sta nell'amore e che non c'entrano i momenti di spensieratezza. Riflettere.", che mi ricordo di avere scritto sulla scia di alcune letture e films che mi avevano entusiasmato. Si rappresentavano belle vicende sentimentali. Qui amore aveva un significato non universalistico, ma riferibile al rapporto tra uomo e donna, come grande avventura, passione erotica ed insieme fedeltà, intreccio di due anime che si uniscono per l'eterno.

Poi c'è un programma, per la maggior parte irrealizzato, di domande alle quali avrei dovuto rispondere per costruire una vera filosofia dell'esistenza, a partire dal concetto di verità, poi da quello di felicità, e di bontà definita rigorosamente come "ciò che spinge l'uomo a porre termine agli eventi che non ci permettono di diventare felici", ecc. Su queste pagine sono stati tracciati, a mo' di cancellazione, dei grossi punti di domanda di epoca non molto successiva, ritengo sempre della mia terza media. Ci sono anche alcune frasi che cercano di specificare la differenza tra lo scrivere filosofico e quello poetico, con l'intenzione di tenere separati i due ambiti, per quanto in ultima analisi impossibile, perché non esiste scrittura neutra in assoluto rispetto alle emozioni dell'uomo. Ma l'orientamento generale passa da un'adesione ingenua (spontanea, sentimentale) alla "missione", a una tendenza più critica, razionale verso la verità. La ricerca della verità prende il sopravvento sull'infatuazione per un oggetto del sentimento. L'intenzione dello scrivere filosofico, neutrale, sta proprio a dimostrare questo passaggio. Questi risultati comunque ebbero un peso abbastanza decisivo per la mia vita pratica. La nozione di bontà che avevo raggiunto mi soddisfaceva e sia in famiglia che con gli amici tendevo ad usarla come regola di vita. Mi dicevo che sarebbe stata più bella e serena la vita se anche le mie sorelle avessero praticato un tale semplice principio. Si potevano evitare inutili litigi e tante altre seccature.

Poi non c'è quasi più nulla di particolarmente personale, solo pochi resoconti di cronaca famigliare o scolastica, sul mio cane o sui compagni di classe, e qualche scarso tentativo poetico. Importante invece una citazione di Aristotele, sempre dello stesso periodo, ma più matura, tratta da un libro di filosofia di mia sorella Paola (un’antologia della Politica):

 

Dalla filosofia di Aristotile si può dire che il bene in sé e per sé non esiste ma il bene è soltanto quello che conferisce alla conservazione e alla felicità dell'uomo.

 

E poco sotto:

 

Da tutto ciò deriva la giustizia vera e su ciò si possono costruire una filosofia, una morale, una politica ecc. che non possono essere altro che vere. Ma è il costruirla, compito molto difficile.

 

Sotto ancora:

 

TUTTO O NIENTE SBAGLIATO

 

Poco oltre un'altra affermazione, dal carattere risolutorio, a sua volta cancellata:

 

bisogna vivere secondo il proprio carattere, sentire le passioni, l'amore, la rabbia cercando di non oltrepassare i limiti, in tutto questo, che vanno a danno di noi stessi

 

Evidentemente i primi due testi sono quasi interamente copiati. Quest'ultimo dev'essere mio, e segna uno sviluppo ancora successivo. Il tutto denota la necessità di accrescere la dotazione del mio patrimonio di concetti e cultura per far fronte ad una certa inquietudine interiore, di tono certamente ancora tutto positivo. Va notata la relativizzazione ormai lucida (anche se la sottolineatura è successiva ed in matita) della nozione di bene. Non so se questo fosse un punto d'arrivo. Non penso. In ogni caso l'idea che i problemi che affrontavo fossero difficili e forse astrusi mi risparmiò dalla fatica di misurarmici subito. Sta di fatto che uscendo dalle scuole medie perdevo completamente quel senso ancora un po' infantile, antico, di credenza nei valori assoluti, sia che fossero tradizionali o raggiungibili attraverso la mia personale speculazione. Come dicevo prima, i pensieri hanno un loro corso, seguono anche inconsciamente una loro logica. E preparano i loro sviluppi.

 

Sviluppi

Intanto la mia vita scorreva normale, serena e con un certo entusiasmo. Mi iscrissi al liceo scientifico senza pensarci troppo, ma perché mi piacevano la matematica e le scienze, e perché già ci era stata mia sorella. Con gli amici andava bene, così con la scuola - che pure trascuravo -, così con il pianoforte, ed ora anche con lo sport. Presi a fare atletica leggera, mi appassionai, allenandomi riuscii a diventare addirittura "campione lodigiano" dei 400 metri, titolo del quale ancora oggi mi vanto spudoratamente. Solo per una "svista" del mio allenatore non raggiunsi il titolo nel lancio del peso. La scuola mi toccava poco e facevo il minimo indispensabile tranne su ciò che trovavo veramente interessante. Per esempio qualche poeta come Ungaretti e Montale.

[A quell'età si incomincia a toccare con mano cosa sia la libertà. Già alle scuole medie iniziano le rivendicazioni con i genitori; dopo, a sedici o diciassette anni, l'autonomia è "cosa fatta", entro certi limiti. Uno comincia ad essere "effettivamente" libero. A tutto ciò non pensavo minimamente, ma bisogna tenerne conto, perché libertà significa possibilità, e possibilità significa indeterminazione, non dover più seguire certe piste obbligate, apertura ad un illimitato ventaglio di scelte. E' già uno stato di "crisi", nel senso etimologico del termine. Essendo comune ai giovani di quell'età, indipendentemente da ciò che caratterizza in modo particolare la mia esperienza, la rende plausibile e statisticamente simile alle altre.]

Intanto pensavo alla "ragazza". Come capita, si è fortemente attratti da qualcuno o da qualcun altro. Una mia compagna di classe portava un bel maglione rosso con una scritta in corsivo: Portobello. Dicevo ad un mio compagno che prima o poi ci sarei approdato, quello era il porto dei miei desideri. Si chiamava Silvia. Sapete com'è. Ci si fiuta e si sceglie, non so bene come ma decisi anch'io, o il destino decise per me. Alla fine della seconda liceo organizzai una bella festa di fine anno scolastico e feci le mie avances. Silvia poi diventò mia moglie, dopo tante vicissitudini. Già in prima avevamo trovato una certa sintonia. Eravamo sempre gli ultimi a consegnare i temi, spesso incompiuti. Così gli insegnanti ci restituivano le "brutte" da completare nel pomeriggio, e noi ci trovavamo, parlavamo, arrivavamo a nessuna conclusione, e il giorno dopo, mentre gli insegnanti e la classe facevano dell'altro noi dovevamo, ancora a parte, ultimare i nostri compiti. La nostra luna di miele sbocciò come un fiore, facevamo sforzi enormi per poterci vedere il più spesso possibile. Quando la distanza ci divideva materialmente noi trovavamo sempre modo di fare capolino, vederci, salutarci, passare qualche ora insieme, magari scombinando i progetti di mezzo mondo. Altrimenti scrivevamo. La promiscuità continua ci allettava molto, ma ogni tanto sorgevano alcuni problemi di imbarazzo oppure, meglio, di dialogo; alcune volte ci trovavamo senza parole, dopo essere stati tanto amici e ciarlieri a scuola. Purtroppo la luna di miele si interruppe bruscamente. Ci lasciammo agli inizi della terza, in autunno. Per lei fu un brutto colpo.

La mia ragazza era cristiana, inserita e "impegnata" in un gruppo ecclesiale, ed era, pur senza nutrire ansie di proselitismo (né per carattere né per volontà), profondamente ancorata alla sua religione. L'avevo abbandonata dopo esserne stato pazzamente innamorato per tutta l'estate proprio quando finalmente potevamo stare insieme di più, con la ripresa della scuola. Giocavano vari fattori, anche ciò che reputavo una sua certa mancanza di iniziativa nei miei confronti (valutazione senz'altro sbagliata, ma mi mancava il senso della misura), mentre mi sembrava che alcune volte preferisse la sua cricca cattolica. Anche la sua mancanza di libertà, il fatto che non se la sentisse di contestare il veto di sua madre a fare le vacanze in tenda con me, erano elementi che non mi facevano piacere. Quando ci rivedemmo a Lodi dopo un periodo di allontanamento, alla fine dell'estate mi pareva di non piacerle più tanto. Ed inoltre ero di vedute più aperte delle sue (ciò non significa che pretendessi la "prova"). Le comunicai che forse era meglio "mollarsi". Lì per lì disse che se l'aspettava (aveva forse odorato qualcosa), poi mi scrisse una lettera di fuoco in cui mi accusava di prendermi gioco delle ragazze soltanto per riempire alla bell'e meglio la mia estate. Ciò non era assolutamente nelle mie intenzioni. ("Se ho conosciuto, almeno a spanne, un Pietro De Luigi è perché l'ho incontrato a scuola. E non solamente nei momenti di relax. L'impressione è stata che tu sia stato con me questa estate, e non prima o in un altro momento, perché semplicemente ti trovavi davanti a un po' di tempo da riempire. Poi si è ritornati alla vita normale: scuola, studio, qualche amico…"). La sua lettera un po' mi compiaceva, perché dimostrava il suo sincero attaccamento, ma quel che era fatto era fatto. Le risposi con bonomia ma anche con un po' di divertita ironia, lasciando intendere che, chissà mai, in futuro avremmo potuto riparlarne. Per ora non volevo ancora "farmi monaco". (Intendevo: legarmi in modo fisso con una, anche se non tutto filava alla perfezione). Nell'amore cercavo un ideale più facile, dirompente, spontaneo, immediatamente trascinante, ma anche assoluto. Avrei anche potuto cercare qualcosa di meno, di più leggero o prosaico, ma non era troppo nella mia indole, anche se non lo escludevo. Di fatto dentro covavo l'idea tipica, romantica dell'amore ad un tempo spontaneo ed assoluto, il sogno archetipo dell'umanità e il simbolo di tutte le sue speranze. Certo, Silvia continuava a piacermi molto.

 

Nel frattempo avevo superato l'esame di storia della musica, al conservatorio di Milano, nella sessione autunnale. Ma intanto la mia situazione tra l'autunno del 1977 e la primavera del '78, in terza liceo, stava cambiando profondamente. Venivano a maturazione, per lo meno così mi sembra, tutti i problemi lasciati fluidamente irrisolti fino ad allora; essi lievitavano sotto la pressione della mia inquietudine e grazie alle mie nuove esperienze culturali. In terza liceo si inizia a studiare filosofia. Una cosa che aspettavo da anni e con trepidazione. Inoltre si studia il medioevo e, in letteratura, Dante, S. Francesco, Petrarca ecc., con un inevitabile riferimento all'orizzonte cristiano della loro cultura. Poi si inizia a studiare fisica (che pure mi allettava molto) ed i testi di allora mettevano - perlomeno il mio - un forte accento sulla relatività del sapere scientifico, pur professando una fiducia quasi assoluta nel determinismo delle cause materiali. In particolare mi colpiva il relativismo. Con l'assunzione, da Galileo in poi, del metodo sperimentale, il sapere è divenuto induttivo e incerto. Si fanno delle ipotesi che sono verificate, oppure, meglio, non sono smentite per un po' di tempo. Queste ipotesi diventano teorie nuove che vanno a sostituire quelle vecchie. Poi anche le nuove ipotesi, le nuove teorie, saranno un giorno sostituite, oppure addirittura contraddette da ipotesi più aggiornate o più generali. Ci hanno insegnato che non il sole gira attorno alla terra, ma viceversa che è la terra a girare intorno al sole. Ebbene, neppure questo è vero; è solo, per ora, più comodo o più semplice descrivere le cose così. Tutto dipende soltanto ed esclusivamente dal punto di vista da cui si vuole partire, cambiando il quale cambia tutto. Incominciavo ad assumere con una radicalità quasi feroce questo modo di vedere, e tuttavia mi rendevo conto che esso pure era, tra gli altri, un punto di vista. Ma era meno illogico che credere a piccole verità facilmente confutabili. La mia ferocia intellettuale incominciò a riversarsi addirittura sullo stesso testo di fisica che, pur facendosi propugnatore di un metodo di indagine veramente "induttivo", mi pareva dare per scontati troppi presupposti. Addirittura arrivavo a mettere in crisi la logica stessa del procedere matematico che stava alla base delle generalizzazioni scientifiche. Io avevo sempre ammirato il metodo deduttivo della geometria euclidea - materia in cui eccellevo - la cui logica adamantina partiva da assiomi ben delimitati, presi convenzionalmente come punti di partenza. Ebbene, a voler partire da quaggiù, dalla nostra esperienza naturale, che cosa decide quali devono essere i punti di partenza? Intuivo solo vagamente l'importanza di una tradizione scientifica, con i suoi presupposti. Le davo, in ogni caso, poca importanza. I presupposti infatti potevano cambiare. E sarebbero stati continuamente cambiati. Inoltre la logica matematica con cui si effettuavano i ragionamenti fisici era ben lontana dalla chiarezza della mia amata geometria, richiedeva continui "giochetti" che non mi parevano leciti, per esempio l'inserimento surrettizio di uguaglianze tra fenomeni "simili" ma non "identici"; come usare allora con coerenza il segno di uguaglianza, quando di fatto le cose non erano mai veramente uguali? Certe uguaglianze nelle equazioni fisiche mi sembravano assumere significati di comodo. E così altri passaggi, altre operazioni. Probabilmente mi sbagliavo, non ho avuto modo di verificare. Se avessi avuto insegnanti che mi seguivano personalmente forse avrei potuto divenire un ottimo studente. Il mio criticismo aveva bisogno di pazienza e di una guida. Io invece restavo sempre più solo e mi mancava sia il vocabolario che la grinta per esprimere pubblicamente e chiaramente i miei dubbi.

Nei ragionamenti stessi, nell'atto di coscienza più lucido, nell'assunzione delle evidenze più elementari, ma anche nella loro critica, scorgevo elementi di irrimediabile oscurità, di indeterminazione. D'altra parte la coscienza era continuamente fluttuante, e ciò che accertavo in un momento avrebbe potuto essere smentito pochi attimi dopo. D'altra parte il bambino che ha appena imparato a sommare non deve riconfermarsi anche sul "due più due fa quattro"? Se deve riconfermarsi significa che non sempre ne è sicuro. Allora ci sono momenti in cui la coscienza è indeterminata, ed in quelli "due più due" potrebbe non fare quattro, come nei sogni. Cosa decideva della superiorità della veglia sul sonno, della ragione sulla pazzia? Ero spietato. Qualcuno diceva che con queste equazioni, con tali presupposti i ponti "non crollavano". Ebbene, cosa vieta che una civiltà sia senza ponti, oppure che si costruiscano ponti con presupposti diversi, per esempio ponti "beethoveniani" o "chopiniani"? Le sensazioni materiali da cui i fisici volevano partire erano loro "fisime", astrazioni isolate dal contesto, anch'esse semplici, forse illeciti "punti di vista". Avrei dovuto studiare le basi della logica ed avere un insegnante filosofo, una specie di precettore privato, per superare queste impasses. Invece mi riducevo a studiare fisica di notte, cercavo di trucidare l'autore del libro, con tutte le mie annotazioni in margine al testo, imparavo poco la lezione, e il giorno dopo prendevo un sei meno meno.

Il determinismo scientifico lo si respirava un po' dovunque, negli anni settanta più che ora. (Il pensiero scientifico contemporaneo lascia molto più spazio al caso, al caos, alla libertà, a modelli che comprendono determinismo e indeterminazione, vincoli e fluttuazioni "libere"). Un determinismo materialistico. Anch'io credevo all'onnipervasiva potenza della materia, ma in fondo in fondo anche la materia rimaneva un mistero. Io stesso mi sentivo determinato da tante cose che avrei preferito non esistessero, ma il mio relativismo era più radicale, e a volte si scontrava con il rigido determinismo della scienza e della visione marxista - economicista della storia tipica di molti insegnanti di allora. Per essere deterministi occorre avere dei presupposti, io invece li stavo distruggendo tutti, facevo di tutto una tabula rasa. Grazie a questa radicalità non ho mai escluso alcunché, così rimanevo aperto al fattore religioso.

 

Per ciò che riguarda il mio rapporto con il cristianesimo è importante un tentativo in brutta su un tema riguardante il Natale, o qualcosa del genere. L'ho scoperto la settimana scorsa. Per ironia della sorte, si trova sempre sulle pagine della mia famosa agenda, non so come mai. Risale probabilmente alla seconda liceo e non appartiene quindi al periodo vero e proprio della crisi. Ma riporta, pur contraddittoriamente, qualche idea sul cristianesimo, ed è l'unico documento che mi permetta di ricordarmi qualcosa al proposito. E' un pastrocchio molto aggrovigliato con innumerevoli cancellazioni e ripetizioni. Non so bene cosa si tenti di dire, ma evidentemente i pensieri non trovano nelle parole a mia disposizione materiale per esprimersi adeguatamente. E' un gran casino, oltretutto l'apparenza un po' convenzionale che ritenevo dovesse avere un tema si scontra frontalmente con una certa vaga, complicata originalità delle cose che volevo dire. Non ripudiavo il cristianesimo, però dicevo che la grande diffusione del Natale come festività era dovuta

 

all'enorme espansione della dottrina cristiana incentivata dal suo carattere consolatorio e dall'opera di evangelizzazione promossa dai primi grandi missionari che insegnarono la 'buona novella' a costo di terribili sacrifici.

 

Il carattere consolatorio del cristianesimo non mi piaceva affatto, e la prima volta che tornai a messa nel tentativo di ridiventare cristiano (l'anno dopo) ebbi un terribile senso di ripulsa per quello che definivo (prendendo in prestito le parole di Ignazio Silone) "l'equivalente morale del puzzo di candela". Nel tema parlo anche della crisi del Cristianesimo, dell'avvento della cultura di massa, del disprezzo generale verso il cristianesimo tradizionale che, ma solo tra le righe, sembro condividere anch'io. Peraltro la mia insegnante era cattolica ed io l'amavo e stimavo moltissimo: non so quanta fatica mi costasse quel tema. Poi prendo in esame la possibilità di una rivalutazione del "messaggio religioso". E mi domandavo in cosa consistesse il coglierlo:

 

Ci si domanda in cosa consista coglierlo.

Io ritengo sia vano cercare di dare una risposta a un interrogativo che come ogni interrogativo religioso ha quel tanto di irrazionale che lo caratterizza [...]

 

Poi parlavo della commozione data dal Natale (che ben conoscevo e apprezzavo ma di cui, un po' convenzionalmente, dovevo denunciare la commercializzazione), la mettevo sullo stesso piano della commozione religiosa in quanto tale e la definivo come uno stato

 

di magica esaltazione che si può più propriamente definire amore per la vita

 

Ciò era importante. Questo stato religioso in fondo era una cosa essenziale che incominciava a mancarmi. Alla fine, se ben interpreto, non avendo il coraggio di concludere che si lasciasse pure commercializzare il Natale (ne valeva la pena, intanto non si faceva male a nessuno, e le strade illuminate e le vetrine addobbate nelle fredde serate invernali facevano, dopotutto, una bella impressione), dicevo che la sua commercializzazione avrebbe finito con il ridurre ad un solo giorno la tenue luce di bontà che sarebbe derivata da quella festa, e che se fosse stata ancora "più sentita", la festa avrebbe tutto sommato giovato alla società, in particolare alle

 

drammatiche situazioni sociali e individuali in cui i giovani si pongono sempre più spesso

 

E così riuscivo forse a cavarmela.

 

Il mio relativismo divenne una posizione filosofica assunta con tutta la coerenza ed il rigore che mi consentivano la mia cultura di allora. Lo scetticismo degli autori tardo-antichi diveniva un simbolo del mio modo di vedere. Siccome poi godevo di una certa perspicacia nei giudizi estetici (differenziati grazie alla mia educazione musicale) e mi chiamavo Pietro, mi paragonavo volentieri all'autore del Satyricon, il latino Petronius detto arbiter elegantiarum, il quale nella sua opera dava un quadro piuttosto truculento, ma distaccato, della decadenza di Roma imperiale ai tempi di Nerone. Ma questa identificazione avveniva per scherzo. Un vero punto di riferimento intellettuale, quasi lo specchio della mia interna concezione del mondo, stavano diventando, già dalla fine della seconda liceo, certe poesie di Montale, il poeta del "male di vivere". Meglio: la diagnosi sulla vita che emerge da alcune sue liriche tratte da Ossi di seppia. Già avevo studiato Montale in prima liceo. Ora esso diveniva per me una specie di "manifesto" della mia concezione relativistica, certo non ideale, ma intellettuale, ché anzi Montale stesso mi era tanto più antipatico quanto più mi avvicinavo irrimediabilmente al suo punto di vista. Poeticamente parlando apprezzavo assai più Ungaretti, che colpiva più nel vivo i miei sentimenti. Ma la verità filosofica sull'esistenza mi sembrava espressa molto meglio da Montale. Evidentemente la divaricazione fra l'ambito del sentimento e quello dell'intelligenza incominciava a farsi ampia in me.

Mi approssimavo alla crisi, e la sua diagnosi sulla negatività e relatività dell'esistere si confacevano sempre meglio al mio modo di vedere. Così scriveva il teorizzatore del "male di vivere":

 

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato

l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco

lo dichiari e risplenda come un croco

perduto in mezzo a un polveroso prato.

 

Ah l'uomo che se ne va sicuro,

agli altri ed a se stesso amico,

e l'ombra sua non cura che la canicola

stampa sopra uno scalcinato muro!

 

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,

sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.

Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

 

Non esisteva parola, concetto, filosofia che potesse cogliere la realtà. Non c’era “formula” che potesse “aprire” un mondo. Nessun “punto di vista”.

Questa era una bella espressione per il mio relativismo. Anch'io avrei ogni tanto voluto essere come quell'uomo "che se ne va sicuro / agli altri ed a se stesso amico". La bella e serena "spensieratezza" di cui parlavo già da ragazzo. Tuttavia ero consapevole di ciò che agli altri per lo più sfugge completamente. Gli altri si trovavano ben assestati a cavalcare un qualsiasi punto di vista, assunto per lo più con totale incoscienza. Io invece sapevo di non avere, né potevo avere, alcun punto di vista. Anzi un punto di vista in assoluto non si sarebbe mai potuto avere. Questa era una verità da togliere il fiato, non solo, generava un malessere insopportabile. Si può essere "relativisti", ma senza spingere troppo al di là del buon senso la propria posizione. Io invece la spingevo tanto innanzi che Montale stesso alla fine mi sembrava un traditore della mia - o nostra - posizione. Cosa rimane della persona che non ha, non può avere punti di vista, prospettive, valori sui quali appoggiarsi? Un'ombra "sopra uno scalcinato muro". Era fin troppo. L'ombra era pur sempre una sagoma, flessibile ma rapportabile ad una realtà oggettiva. Il mio relativismo era metodico ed assoluto. Si attagliava sia all'ambito esterno che a quello interno, alla mia stessa psiche e personalità. E proprio nell'interiorità il relativismo operava la vanificazione e la nullificazione più assurda e dolorosa.

L'animo diventa veramente informe, non ha più terra dove mettere radici, finisce per non credere neanche a ciò che istintivamente lo appaga. Se fuori rimaneva tuttavia sempre qualcosa, dentro mi libravo sopra il nulla assoluto. Si dirà che l'uomo prende pur sempre il coltello dalla parte del manico, per non tagliarsi le mani. Ebbene, io iniziavo a chiedermi che senso avesse continuare a fare così. La crisi si sviluppava.

Prendiamo ad esempio il mio rapporto con il pianoforte. Suonare un pezzo di musica significa goderlo, parteciparvi, immedesimarsi con il suo autore, anzi con l'attimo che ha presieduto alla sua ispirazione. Significa cogliere l’idea platonica, un momento di grande intensità emotiva, una possibilità estetica che il compositore ha intravisto - o subito - e descritto per noi. Ma quell'altalena di possibilità estetiche diveniva anche un cruccio, un tormento. Certo suonavo volentieri e i pezzi mi coinvolgevano profondamente. Ma ormai la mia era una crisi vera e propria. L'assenza di qualsiasi orientamento della "mia" vita, la convinzione per così dire "scientifica" che non potesse averne, finiva per lasciarmi soltanto con quelle possibilità estetiche, sentimentali, ed esse di volta in volta mi si attagliavano bene, ma la mia vita era senza residui in esse, ed esse erano come i ruoli o i personaggi di un attore che non si ricordi più chi è realmente, quale sia la sua parte vera nella vita. Io ero in balia ora di questo, ora di quel clima poetico, di quell'atmosfera, in modo anche fin troppo intenso, coinvolgente, morboso. Ero forse troppo facilmente condizionabile? Certo si può pensarla così. D'altronde perché non sarebbe giusto lasciarsi condizionare? Per me tutto ciò era stato vita e passione. Oltretutto aveva dato dei risultati. E poi chi l'ha detto che non bisogna lasciarsi condizionare? E a partire da che? (Gorgia, il sofista, non dice a proposito dell'arte che "chi è ingannato è più saggio di chi non è ingannato"?) Generalmente chi va per la sua strada ci va perché ha, più o meno consapevolmente, dei punti di riferimento. Così, solo così si possono fare delle scelte. Questi punti di riferimento sono magari inconsci, derivano dal portato globale di un'esistenza, sono valori assunti dai genitori, dalla propria tradizione, dalle proprie inclinazioni. Io invece avevo messo tra parentesi tutto. Il mio radicalismo filosofico aveva spazzato via tutto, proprio tutto, forse anche le mie inclinazioni. Tutto era relativo, ogni cosa dipendeva da un insieme praticamente infinito di altre cose, la fluttuazione dell'essere era assoluta, e forse neppure le circostanze avrebbero avuto l'ultima parola. Questa sembra una posizione filosofica legittima ed apparentemente coerente. Il problema nasce quando questo relativismo passa dall'esterno all'interno, dalle cose che sono fuori di me a me stesso. Io stesso sono relativo, ogni stato del mio essere dipende esclusivamente dal mio stato precedente e dalle circostanze di tempo e di luogo. Ma anche il modo di dipendere è aleatorio e relativo. Allora io chi sono? Un'infinità di facce diverse, di modi di essere, certamente collegati tra di loro ma da che cosa? Dal caso, dalle circostanze, dai miei occasionali pensieri. In sostanza il cemento che teneva insieme la mia vita non aveva senso, era senza senso, identificandosi con le relazioni, a loro volta relative, nelle quali mi trovavo invischiato. Certo ero un bravo ragazzo. Andavo a scuola tutti i giorni, tranne qualche piccola bigiata. Ma se mi chiedevano perché ci andavo non lo sapevo più. Parlandone con un mio amico - un po' scherzando, ma io di fatto dicevo la pura verità - alla domanda sul perché andavamo a scuola rispondevo: - Perché mio padre mi ci porta tutte le mattine. Infatti avrei anche potuto non andarci, o magari fuggire di casa, o drogarmi, o violentare le ragazze ed andare in prigione, e poi riscattarmi con una lunga vita di penitenza e di bontà, oppure metter più impegno nello studio per diventare uno studente migliore oppure, ancora, farmi bocciare. Certi film non erano belli proprio per il loro pathos, perché mischiavano magistralmente l'eros con la morte, la bontà con la cattiveria, il male, l'errore e l'ingiustizia con la verità e la saggezza? Avrei potuto fare di tutto, anche se di fatto continuavo ad essere quello che ero sempre stato, e stavo al mio posto. Ma tutto era perfettamente possibile e, perché no?, legittimo. Certo mi sembrava migliore la bontà della cattiveria, e istintivamente anch'io preferivo l'eroe buono al cattivo. E magari prendevo posizione a scuola per ciò che mi sembrava più giusto, contro altri compagni di classe. Ma ciò in fondo era un'incoerenza che non potevo più legittimare a me stesso. Ero onesto e lavoratore. Magari trascuravo la scuola, ma a mio modo cercavo di far fruttificare il mio tempo. Questi valori in famiglia me li avevano insegnati. Ma appunto, me li avevano insegnati. Li condividevo istintivamente, ma ormai sapevo che per il criminale diventa istintivo uccidere, oppure naturale e necessario; pure il senso di colpa era qualcosa di molto relativo. Il male di per sé poteva avere una sua attrattiva, un suo fascino. Non che avesse per me un'attrattiva particolare. In ciò la mia esperienza è stata un po' diversa da quella di S. Agostino, anch'essa legata al problema metafisico, ma più impastoiata sul dramma delle gozzoviglie e dei piaceri mondani. Come apprezzare il bene se non ci fosse stato il male? L'intorbidamento psicologico dovuto al dolore, all'afflizione, il pianto e la disperazione di un'attrice eccezionale non fanno presa su di tutti? Non hanno un che di accattivante? Tanto più su di un adolescente. E perché? La morbosità struggente di certa musica di Chopin, oppure, su tutt'altro piano, religioso questa volta, la sofferta meditazione cristiana di un Bach sul dolore universale cosa erano? Momenti esteticamente altissimi, effusioni insondabili di un insondabile mistero. E in questo mistero il male e il bene erano indiscernibili, inestricabilmente aggrovigliati. Ma, dicevo, il problema del male non era prioritario, per lo meno quello del male morale. Il mistero abissale sopra il quale mi affacciavo con il mio relativismo "scientifico" era esso stesso male. Non c'era più spazio per alcun tipo di bene, se il bene era così relativo da negare addirittura valore alle mie inclinazioni, lasciandomi indeterminato davanti ad ogni cosa. Io vivevo certamente male, ma il mio problema era di natura metafisica. Era la parificazione di tutto, il relativismo assoluto, la razionalizzazione più perfetta dell'entropia, quantomeno psicologica, quella di chi ha messo tutto tra parentesi e non sa più a cosa appigliarsi per non annegare. Anche l'amato pianoforte mi dava i suoi problemi. L'altalena estetica mi nuoceva, ogni cosa mi nuoceva. Le "sensazioni materiali" da cui volevo partire da ragazzo erano diventate percezioni estetiche, intensità fluttuanti ed irrelate del sentimento. Erano teofanie penetranti, acutissime, ma insensate di un allucinante mistero senza volto e senza scopo. Mi piacevano, ma mi disturbavano, mi "ammalavano". Così le albe, i tramonti, i meriggi, i viaggi, i ricordi, i mutamenti della vita o dei luoghi, le cose tutte cos'erano se non dei dolorosi, lancinanti momenti di nostalgia infinita? Ma nostalgia di che? Non c'era nulla da desiderare, nulla. Solo un vuoto che forse neanche la morte avrebbe potuto riempire. Infatti la morte, tra i mortali, è un momento di straziante nostalgia. L'idea di morire, farla finita, e di lasciare agli altri un interrogativo così tremendamente assurdo non poteva piacermi. Non avevo il diritto di contaminare l'ingenua "spensieratezza" degli altri, pur sapendo che anche quella era una maschera che presto o tardi sarebbe ridicolmente caduta. Tutto ciò non poteva lasciarmi tranquillo.

 

Ma torniamo al mio rapporto con Montale. Nella lirica che ho presentato non si vedono ancora i risultati di questa concezione della vita, se non per la scelta di qualche fugace immagine ad indicare la povertà estrema della condizione umana (l'ombra sullo scalcinato muro, la storta sillaba). Eccoci invece al centro del "male di vivere":

 

Spesso il male di vivere ho incontrato

era il rivo strozzato che gorgoglia,

era l'accartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.

 

Bene non seppi, fuori del prodigio

che schiude la divina Indifferenza:

era la statua nella sonnolenza

del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

 

Certo le immagini sono strazianti, ma conservano una loro plastica bellezza poetica. Inoltre lui dice di aver incontrato "spesso", non sempre, il male di vivere. Qui mi sembrava venir meno la coerenza di Montale. Teorizzava come me il relativismo assoluto, l'impossibilità di addivenire ad alcunché e poi scriveva bellissime poesie con belle e ricercate parole. Tutto ciò mi sembrava disonesto. Forse Montale "predicava bene ma razzolava male". Come poteva parlare del male metafisico del vivere e poi farsene propugnatore? Io volentieri facevo le pulci a scienziati e filosofi, perché questi erano troppo disattenti alla verità e non la ricercavano radicalmente. Ma lui con quale diritto poteva fare l'araldo di una visione così pessimistica come la mia senza prima viverla a fondo? Io incominciavo a pensare che avrei potuto prendere il coltello dalla parte della lama, e forse prima o poi, se non avessi trovato di meglio, l'avrei fatta finita. Invece lui diventava famoso per delle bellissime poesie che cantavano una pessima (ma vera) concezione del mondo. Perché non si suicidava? Aveva una chance. La "divina Indifferenza" di cui parlava non mi attraeva - è difficile che possa attrarre un giovane. E poi quale prodigio schiude la divina Indifferenza? Non mi piacevano né la statua nella sonnolenza, né la nuvola, né il falco. Forse non capivo queste immagini, perché oggi vi vedo una luce che allora non vi percepivo. In ogni caso, detto fuor di metafora per me la divina indifferenza poteva significare la possibilità di prendere il coltello dalla parte della lama, con totale indifferenza. Non mi risultava che Montale lo facesse. Io soffrivo del mio pessimismo, e con ciò ero più coerente, lui forse no. Diciamo che mi rimaneva la voglia di chiedergliene ragione. Forse da qualche parte aveva anche lui i suoi "punti di vista", un angolino piccolo piccolo, un nido in cui trovare rifugio. Sapevo che Ungaretti aveva attraversato una crisi e si era fatto cristiano. Questa mi sembrava una posizione più coerente. Scegliere la fede era forse possibile solo se la ragione non portava a nulla, anzi radeva al suolo tutto. Allora, solo allora la fede sarebbe stata giustificabile, nell'assenza totale di ogni giustificazione. Perché ogni giustificazione era un punto di vista, e noi non ne potevamo avere. Prima o poi ci avrei pensato. Credo quia absurdum, per dirla con Tertulliano. Ungaretti mi stava più simpatico. Lessi poi una sua introduzione all'Inferno di Dante in una bellissima edizione illustrata della Divina Commedia. L'inferno era il regno dell'assurdo e del male. Anche in una visione cristiana della vita, per quanto il cristianesimo tradizionale fosse fatto di mistificazioni consolatorie, l'inferno diventa un problema cruciale. Lì il cristiano si scontra con il male assoluto, eterno, ciò che poteva assomigliare alla mia concezione del non senso assoluto. Nel V° canto dell'Inferno Dante incontra Paolo e Francesca, i due amanti legati da un amore tenacissimo, assoluto, per l'eternità della loro dannazione. Come mettere all'Inferno due che si amano così? Dante stesso non regge all'urto di un mistero tanto tremendo e sviene. Io mi riconoscevo perfettamente in lui.

Scrissi poi una poesia datata il 12/2/78 (Après une lecture de Dante - Dopo una lettura di Dante), di discutibilissimo valore poetico. Unica cosa rilevante è un riferimento pessimistico ad una condizione "medievale" del nostro vivere, condizione che ci costringe ad una pena costante e irrimediabile:

 

impossibile uscirne / tuffarsi in un / crisma / di poesia duratura

 

In filosofia intanto lottavo ferocemente contro tutti coloro che senza rendersi consapevoli dei loro stessi presupposti (perlomeno così pensavo) arrivavano a dei punti fermi. Mi accanivo quindi contro Platone mentre mi sentivo vicino ad Eraclito e a Socrate, per quel poco che ne sapevo. Socrate mi era stato sin dall'inizio un maestro, ma solo per una cosa: l'insegnamento della "consapevolezza etica". Importante era sapere, essere consapevoli, fino in fondo, di ciò che eravamo e facevamo. Sembrava che la virtù per lui (non discuto qui se le nozioni che avevo corrispondessero effettivamente al Socrate storico) sarebbe derivata spontaneamente da questa consapevolezza, anzi addirittura vi si identificasse. Io provavo a seguirne la strada. In filosofia andavo bene, ma a costo di quali risultati?

 

Verso una soluzione

Nell'inverno a cavallo tra il '77 e il '78 quasi tutti i nodi vennero al pettine. Penso di aver raggiunto in quel periodo il culmine della mia angoscia. Pensai qualche volta con un certo realismo anche al "farla finita", certo era un porre termine alla sofferenza, ma in fondo era ancora presto, si poteva aspettare, e sarebbe stato stupido. In fondo la speranza è sempre l'ultima a morire. Diedi una festa il 31 dicembre. In quella festa iniziai una nuova avventura sentimentale che ebbe termine pochissimo tempo dopo. Silvia era tra gli invitati e notai che se l'ebbe a male e pianse. Intanto in cuor mio decidevo di avvicinarmi al cristianesimo, un po' per saggiarne la consistenza, un po' per simpatia (cfr. Ungaretti), un po' perché il mio relativismo non mi lasciava scampo. Quando l'anno prima parlavo di quel generico amore per la vita di cui consisteva essenzialmente la religiosità, parlavo di una realtà che tutto sommato mi attraeva e di cui avvertivo tragicamente la mancanza. Così come mi attraeva la "spensieratezza", non più quella ingenua, inconsapevole, della mia pubertà, ma quella sacra, quella di chi sa apprezzare l'aria che respira e il ritmo del cuore che gli batte nel petto. Una spensieratezza yogica, religiosa. Ma io non volevo ripiegare consolatoriamente su nulla, non potevo falsificare le mie stesse carte. Ritenevo urgente confrontarmi con la fede nella quale ero stato battezzato e che forse poteva contenere una sapienza che ancora mi rimaneva nascosta. Dopotutto essa costituiva la tradizione che più di ogni altra aveva segnato lo sviluppo e la cultura della nostra civiltà occidentale, almeno fino a qualche secolo fa. Avevo comperato, durante l'estate precedente un libro di uno scrittore cristiano, Luigi Santucci. Il libro si intitolava Volete andarvene anche voi?, una frase che Gesù pronuncia ai discepoli durante un momento di crisi, per mettere alla prova la loro fede. Essi rispondono: "Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna". Santucci nell'introduzione dava evidenza al fatto che per il cristianesimo era essenziale essere una religione della "fede" e richiedere una "fede". La fede, fede nella rivelazione, caratterizzava il cristianesimo ancor prima del suo contenuto specifico, ed era la conditio sine qua non della sua esperibilità, era la base stessa della sua possibilità. L'idea che quella bimillenaria tradizione religiosa ormai in piena decadenza fosse arrivata fino a me, tramite il battesimo, un po' mi sembrava una cosa strana, mi stupiva, un po' mi faceva desiderare il conoscerla meglio. Sapevo che esistevano illustri scienziati e filosofi cattolici. Lo stesso Ungaretti aveva abbracciato la fede. Possibile fossero tanto stupidi? Quest'idea della "fede" era già essenziale, incominciava ad assumere un significato inatteso. Forse a questo punto più che conoscere si trattava di credere, o di mettersi nell'ottica di provare a credere. In fondo non mi rimaneva altro. La mia ragione metteva in crisi praticamente tutto, e il mio relativismo era da una parte la dimostrazione che con l'intelletto non si poteva raggiungere nulla, dall'altra forniva una specie di base alla necessità di credere. Credo quia absurdum, diceva Tertulliano (che io non conoscevo ancora). Forse Tertulliano intendeva un'altra cosa, cioè che Cristo stesso era un assurdo. Io invece dovevo credere, perché il mondo stesso sarebbe stato un'assurdità senza una fede, e io non ce la facevo più a reggere quest'assurdità. Visto che in qualcosa bisogna credere tanto valeva credere in chi di "credere" se ne intendeva. Siccome Gesù faceva della sua religione espressamente una religione del "credere", tanto valeva credere in lui. Ma anche la fede, come si vedeva dall'esempio di Dante che sviene alla fine del V° Canto dell'Inferno, non toglieva completamente l'assurdità. Altrimenti, come avrebbe potuto essere una fede? Le cose incominciavano a quadrare. Questo era un pensiero difficile, ma importante. Era una posizione fin troppo irrazionalistica, ma fu la base di quel fideismo che mi permise dal punto di vista "filosofico", per quel tempo, di accedere alla fede. Un "fideismo tragico" che non assegnava più alcun valore al reale, alla razionalità. Ormai incominciavo a riconoscere che da solo non potevo fare più nulla. Già nei mesi precedenti avevo perso molto della mia antica sicurezza. La crisi relativistica dal punto di vista psicologico fu un disastro. Mi aveva segnato profondamente, tenendomi in uno stato di tale prostrazione e angoscia che proprio non fui più quello di prima. A scuola non prendevo più parte a scherzi e burle se non "recitando" la mia parte. Di fatto niente mi divertiva. Se in filosofia continuavo a primeggiare per le risposte ai difficili interrogativi che l'insegnante poneva alla classe, contemporaneamente avvertivo l'assoluta vacuità sia delle domande che delle risposte e forse cominciai a schermirmi. Organizzavo vacanze con gli amici burloni ma mi sentivo sempre più solo, e non avevo chi potesse ascoltare le mie confessioni. Provavo un certo disagio, non so se si capisse che ero in crisi. Incominciai a pensare di nuovo a Silvia, che forse poteva capire qualcosa. Anche i mesi successivi furono parecchio travagliati. Ho delle testimonianze molto interessanti di questo periodo in cui, per così dire, decisi di orientarmi alla fede, anche se questo orientamento rimaneva, in modo un po' condizionato, una scelta, una volontà, una determinazione pesantemente volontaristica più che un'"apertura". Mi mettevo, come l'Amleto di Shakespeare, sul piano dell'essere o non essere, ovvero del volere o non volere. Per di più questo nuovo orientamento non veniva immediatamente a patti con il mio modo consueto di vedere, ed in certi casi generava nuovi conflitti. La poesia che citai prima (impossibile tuffarsi in un crisma di poesia duratura) risale già a questo periodo. E' del febbraio del '78. Questa testimonianza (sempre dalla mia agenda) è del 25/1/1978:

 

Sono stato profondamente scosso. Alla presa di coscienza che la teoria della relatività implica anche la relatività del tempo - relatività che implica l'impossibilità dell'esistenza di un [unico] orologio per tutto l'universo - anche la mia fede ha vacillato. Fede cristiana per la quale mi ero preparato a tutto, anche alla più sconcertante delle verità del relativismo. [Non sapevo ancora che Einstein non era affatto relativista nel senso in cui lo ero io. Ché anzi Einstein "credeva" con una fede robustissima alla profonda razionalità del cosmo, e la teoria della relatività - come grande tentativo di unificazione di teorie prima irrelate - sta a dimostrarlo. Per me il problema consisteva nel fatto che abbracciando per fede una fede dal contenuto "storico" - la vita, morte e resurrezione di Gesù, avvenute in un tempo dato - mi ponevo in una situazione aporetica, imbarazzante. Se l'Assoluto, Dio, decideva di incarnarsi una volta per tutte in Gesù Cristo, come si poteva considerare questo fatto "temporale" come un "assoluto", dato che non esisteva alcun tempo assoluto?] D'altronde capita generalmente a tutti di essere pervasi da un profondo e terribile senso d'angoscia, quando si pensi a realtà che superano di gran lunga quelle del nostro vivere quotidiano. E da ciò la mia fede deve trovare un ulteriore incentivo. Tanto più che conosco benissimo, per esperienza personale, quanto sconcertante sia pure, se non di più, il relativismo implicito nel nostro vivere pratico, nell'adempiere le nostre funzioni e nel soddisfare le nostre necessità. Questo di quaggiù è il relativismo, più che sconcertante, avvilente; quello per cui diventa difficile dare un senso alle nostre azioni e trovare di conseguenza una dimensione stabile dell'essere; ciò che ci rende difficile pure il "sopravvivere": appunto quello che mi ha fatto (o ci fa?) cercare in Cristo la ragione suprema di tutte le cose e in assenza del quale sminuirebbe l'importanza del "fattore fede". Invece gli attimi in cui ci pervade quel pur misterioso senso del relativismo "scientifico" sono brevi, per quanto assai tumultuosi. [...] Il Cristo si definisce "Colui che è sempre stato e sempre sarà". Pensando a quest'affermazione inerente in qualche modo al problema del tempo, e quindi della relatività, ho sentito vacillare la mia fede legata in qualche modo al dato razionale. D'altra parte volendo possiamo far assurgere la frase anzidetta […] ad un significato che trascende la realtà fisica [vale a dire anche "temporale", che sia o no relativa] delle cose: ed è subito l'eterno conflitto tra volere e non volere, essere e non essere. Ora mi si chiederà: ma perché volere in quel senso, volere aver fede, volere intravedere nella frase, forzatamente, il "Creatore", quando l'"archè", il principio di tutte le cose è un problema tanto lontano dalla nostra odierna mentalità, e quando - sempre volendo - possiamo superare, pur nella consapevolezza [volevo dire: senza mistificazioni illusorie], tali terribili angosce rifacendosi all'unica cosa che ci è dato d'avere: la vita, in nome della quale "sopravvivere"?

 

Catarsi

Come vedete è una situazione ancora fluida, anche se ormai cerco continue legittimazioni per il mio orientamento cristiano. La partita non era del tutto decisa. Il "sopravvivere" aveva un colore più "stoico", diciamo così, forse sembrava una posizione più onesta, mentre la fede tendeva a consolare di più, a dare contenuti più sensati al vivere, ma forse fittiziamente. Tuttavia la posizione della "fede" tendeva ad avere la meglio. Infatti la soluzione "laica", anche quella della "pietas" universale, in cui la solidarietà fraterna era il fronte comune degli uomini contro la precarietà e la miseria del loro esistere, conteneva già in se stessa una "fede", come presupposto. Era una posizione un po' leopardiana, che certi compagni di classe assumevano. Ma questa "volontà di sopravvivere" (cosa già insensata per chi fosse disposto a "prendere il coltello per la lama") poteva legittimarsi solo in base ad alcuni valori (la bontà o la solidarietà, oppure, più radicalmente, la "volontà" stessa di sopravvivere) e questi a loro volta presupponevano una fede (nella bontà contro il male, appunto, oppure nel "volere" contro il "non volere", ecc.). Presupponevano una specie di Dio, un punto fermo, un punto di vista.

Di fatto mi avvicinavo ad una potenziale sorgente di significato, e sarebbe stato stupido dopo questi primi approcci, negarsela subito. Per me si trattava di una vera novità, e mi permetteva nuove prospettive. Prospettive che non potevo più trovare nell'asfissiante brodaglia in cui da tempo mi ero cacciato.

Guardate però in questa testimonianza del 10/3/'78 con quale ossessiva problematicità continuava la mia esperienza:

 

[...] Mi ricordo che, stanco di scrivere, l'ultima volta [si tratta della testimonianza precedente. Come vedete non scrivevo molto, solo appunti essenziali] mi ero impegnato a continuare il discorso sulla fede e sul relativismo. Ora mi rendo conto di non essere in grado di impostare un discorso seriamente filosofico. Non ho le basi culturali sufficientemente solide; e poi credo non sia tanto questione di "basi", quanto di capacità di stare alla pari con le più moderne e complesse speculazioni scientifiche. In poche parole: il mio discorso non mancava di profondità; mancava di chiarezza [...]. I termini "volere e non volere", "essere e non essere" oggigiorno si usano poco. [...] Mi trattengo dal dilungarmi in sofismi e passo a me stesso. Confesso innanzitutto di essere turbato dal fatto di dover essere estremamente sincero. La giornata non è cominciata male: è la seconda di vero sole, dopo ieri, e questo è importante perché generalmente le prime giornate di Primavera mettono gli uomini in uno stato di euforia. L'esuberanza della natura sembra suggerire vivacità all'uomo. Aprendo le finestre di camera mia prima di andare in bagno ho pensato a Silvia e al suo modo di sentire la natura (chissà se lei leggerà mai questi appunti) nella lettera che mi ha spedito al mare. Per me, continuamente in cerca di uno stabile modo di "sentire la vita" cristiano, la natura non deve presentare un'occasione di contagio "mondano". Proprio questo ho pensato stamattina interrogando la natura, cercando di "sentirla" in un modo piuttosto che in un altro, o forse soltanto di sentirla come dovrei imparare a sentire la vita che mi pulsa dentro. Cercavo l'impronta divina. Volevo, e voglio, francescanamente far parte del "dinamismo creativo". Ed è naturale che questo mi accada quando la natura presenta un briciolo d'interesse in più del solito; altrimenti di prima mattina sono portato più spontaneamente a pensare a me stesso cercando l'imitazione di Cristo con lo sforzo di volontà che mi permette di agire attivamente. In un certo senso la natura ha rappresentato il salvagente cui aggrapparmi per sentir meglio la vita; ma ho subito dubitato che potesse rappresentare un "evasione" [nel senso di "tentazione"]: so bene, e lo sapevo stamattina, come lo so da qualche anno, che parallelamente al suo mutare nel corso della giornata, muta in relazione il mio stato d'animo, e quindi "sancire" il mio abbandono ad essa nel solo momento in cui mi si presenta gradita non ha significato cristiano. (Quanto è complicata la psicologia: al livello delle cose di cui parlo si può notare come dovrebbe agire in campo etico una determinata "conoscenza", di modo che l'agire sia socraticamente regolato su di essa: ma siamo ancora tanto succubi della nostra mutevolezza psicologica, delle "passioni" in senso lato, che soltanto una radicale organizzazione della nostra esistenza - anche dal punto di vista fisiologico, come attesta lo YOGHA - può permettercelo. (Forse sto calcando un poco la mano, ma resta il fatto che sono pietrarchescamente complicato) [allusione alle sottigliezze un po' accidiose del Petrarca]. Bisogna invece saper consacrare ogni attimo della propria esistenza a Dio.

 

Fortuna che me ne rendevo conto! Calcavo un po' troppo la mano. Oggi questo mio fanatismo psicologico, questa morale delle intenzioni guardate al microscopio un po' mi spaventa. Ma allora mi sembrava (o forse era) una tappa necessaria per tirarmi fuori dalla mutevolezza delle passioni, dall'immensa brodaglia del relativismo delle sensazioni, dei pensieri, dei sentimenti, un relativismo che, avendomi portato alla totale disgregazione, iniziava ad apparirmi come male, come contagio.

In marzo ripresi la relazione con Silvia, che fortunatamente continuava ad aspettarmi. Grazie a lei feci qualche scorribanda nei gruppi ecclesiali che frequentava, provai a tornare una volta a messa (esperienza deludente cui ho già accennato). Nelle associazioni ecclesiali, al di là delle mie aspettative, trovai persone che mi sembrarono in gamba, preti che, diversamente da quelli conosciuti fino ad allora, sapevano il fatto loro, parlavano bene e dimostravano un tenore di cultura superiore alla media, staccandosi da una visione superficiale della fede. Mi ricordo di aver sentito don Diego definire Dio in termini di "Atto puro" (definizione aristotelica che mi piacque e incrementò per un po' di tempo la mia concezione volontaristica della fede). In quell'ambiente trovai nuovi coetanei, potenziali amici, personalità complesse e interessanti. Ma non tutte le occasioni formative di quest'ambiente mi erano gradite. Mi sembrava si indulgesse un po' troppo spesso a certe "falsificazioni consolatorie" di cui non volevo sentir parlare, così come ripudiavo le giornate splendenti di sole perché troppo facilmente apprezzabili.

La vita continuava in un travaglio piuttosto doloroso. Spesso ero tremendamente angosciato per giorni, settimane, poi avevo magari il sollievo di una giornata in cui mi sentivo meglio. Ero ormai irretito in una specie di nevrosi da "relativismo", e stentavo a trovare una nuova via religiosa. Comperai per Silvia (forse per il suo compleanno?) le Confessioni di S. Agostino, e per me un libro di Yogha, di un autore cristiano. Nel rapporto con Silvia e grazie al suo carattere, iniziò ad insinuarsi un altro valore che mi permise di relativizzare un po' il mio "volontarismo" un po' fanatico. Penso che sia stato importante in vista del passo definitivo. Nel rapporto di coppia non tutto fila liscio. Si può penare per delle stupidaggini, per incomprensioni o malintesi dovuti all'ineluttabile diversità, all'impossibilità di vedere le cose come l'altro. Perché ora tace? Perché le do fastidio se parlo così, spinto dall'affetto? Di tali occasioni sono pieni i rapporti di coppia. Sono "turbative" che il generale realismo degli esseri umani mette in conto, pur senza accettarle volentieri. Io ero stato assolutamente idealista nel pensare all'amore. Avevo lasciato Silvia perché non vedevo sempre in noi quell'incendio di passione, di esaltazione, di dedizione che l'amore avrebbe potuto o dovuto essere. (Nel mio relativismo faceva forse eccezione l'amore indisgiungibilmente sessuale e personale tra l'uomo e la donna?). Ma ora il mio nuovo orientamento di fede mi apriva nuovi significati. Credere significava accettare. Non solo la trascendenza di Dio, ma anche il mondo, la vita; fosse pure nella sua insensata tragicità, com'era stato per Dante, o per Gesù sulla croce, o per Maria che spesso "non capiva" - ed è tremendo non capire, perché forse quasi tutto è sopportabile con un senso, ma senza senso... Accettare l'Altro. Nella fede c'era un'accettazione che mi era sfuggita. Non era soltanto una scelta. Gesù sulla croce accettava il male per fede ma anche per amore. Dentro la fede, attraverso l'accettazione, incominciava a rivelarmisi la possibilità dell'amore. Questa ne è la testimonianza (9/4/'78):

 

Ormai la mia vita può progredire nella misura in cui riesco a diventare più cristiano, nella misura in cui riesco a voler più bene a Silvia. Forse la grande differenza tra me e lei è che lei tacendo, non esprimendosi e non confidandosi è istintivamente felice. Io non esprimendomi, invece, saltando il "sottilissimo contatto intellettuale" mi sento morire. [...] Ecco insieme abbiamo ancora molti problemi da risolvere: ma la mia capacità di "accettazione" cristiana deve affermarsi sin da ora…

 

Arrivo alla conclusione.

Il gruppo ecclesiale cui partecipavo studiava il vangelo di Marco, utilizzando un commento di Bruno Maggioni. Mi misi a leggerlo per conto mio. Il vangelo di Marco non ha peli sulla lingua. E' un vangelo "duro" per i catecumeni, con parole asciutte e forti. Diversamente da Luca che presenta fatti e parabole in un'aura un po' natalizia, e insiste sulla misericordia, il vangelo di Marco è tremendamente prosaico e letterale. Di elementi d'incomprensione, tra me e la fede ce n'erano ancora molti, nonostante i testi che vi ho fatto leggere dimostrino una tendenza irresistibile e consolidata. Ma io barcollavo ancora tra il "volontarismo" fideistico e il relativismo tragico. Quell'idea di accettazione forse fu il requisito indispensabile del mio nuovo sviluppo. Don Diego mi aveva proposto l'esperienza degli "esercizi spirituali", ormai ci avvicinavamo all'estate. Io non sapevo di cosa si trattasse, precisamente, e non avevo alcuna idea di ciò che fosse la preghiera. Conoscevo solo uno stato enorme, o abnorme, di prostrazione di fronte al male di vivere, che potevo "consacrare a Dio". Era l'unico significato che avesse la preghiera per me allora. Decidere per fede che quello stato potesse avere un significato per me recondito. Ora leggevo la parabola del seminatore, al capitolo 4 di Marco. Alla fine Gesù diceva: "Chi ha orecchi per intendere intenda". E il vangelo proseguiva così:

 

Quando poi fu solo, i suoi insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole. Ed egli disse loro: "A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio [sapevo che il regno si identificava con la buona novella, il vangelo stesso e la vita di Gesù. Ma ancora non coglievo in tutto ciò dove fosse il buono, la bontà. Il mio, ripeto, era un fideismo tragico]; a quelli di fuori invece tutto viene esposto in parabole, perché guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non intendano, perché non si convertano e venga loro perdonato".

 

Questo era il colmo. Mi trovai di fronte ad un bivio. Io ero ancora tra "quelli di fuori"! Dio stesso aveva previsto che io non "capissi". Per comprendere avrei dovuto credere ed accettare, anzi seguire, divenire uno dei suoi. Così forse avrei capito, solo così. Credo ut intelligam: credo per comprendere. Io da tempo credevo, ma senza comprendere. Ci sarebbe stato qualcosa da comprendere? A quanto pare sì. C'era il mistero del regno, ed era la stessa buona novella. A me sfuggiva completamente il significato positivo di quel messaggio. Ma indubbiamente un "buon messaggio" doveva esserci. Io finora avevo provato a credere, ma era uno sforzo mio, e Dio mi aveva solo parlato in parabole. Era logico che non capissi. Ora dovevo divenire uno dei suoi ed ascoltare le sue spiegazioni più che le mie. Così avrei visto, ascoltato, e capito. Fu un momento di grande tumulto, di "timore e tremore". Non mi ero mai deciso veramente a mollare il punto di vista della mia soggettività, a mollare il punto di vista secondo il quale la fede era un mio atto, un atto esclusivo della mia volontà. In pratica non avevo ancora provato a considerare la fede opera di Dio, e con ciò non avevo ancora mai mollato me stesso. Per questo non capivo, perché il mio cuore si era indurito! Ora dovevo accettare la fede in modo diverso, aprendomi ad un nuovo mistero. Mi bastava un passo e sarei stato "dentro". Come Maria: "Si faccia di me secondo la tua parola". Ma io ero già nella sua parola! Sia dentro che fuori ero nella sua Parola! Così potei fare il passo. Mi arresi, mi consegnai. Abbandonai il mio punto di vista. La fede non sarebbe più stata mia, ma un fluire gratuito da Lui a me, come una pioggia che metteva a nudo me stesso sotto i miei vestiti. Non so che mi successe. Decisi certo che sarei andato agli esercizi spirituali (anche se questo mi dava un certo imbarazzo) ma la cosa più importante è che da quel momento la mia anima fu pronta per la preghiera, in modo affatto nuovo. Potrei riferire le parole con cui S. Agostino descrive quell'attimo di illuminazione che segnò l'ultimo, definitivo passo della sua conversione.

 

Non volli leggere oltre e neppure occorreva. Con le parole finali di questa proposizione una luce di calma mi fu instillata in cuore e ne cacciò quel buio folto di incertezze (Agostino, Confessioni, VIII 12.29)

 

Anch'io ricevevo - ricevevo, non conquistavo - un'illuminazione che era calma, gioia e pace, per la prima volta dopo tanto. Anche in me per la prima volta quella luce scacciò il "buio folto di incertezze" di cui parla S. Agostino.

Avevo iniziato la pratica Yogha e presi a svegliarmi presto la mattina per pregare. La mia fede iniziò ad avere un significato che fino a poco prima non avrei potuto lontanamente intuire. In un certo senso dell'esperienza mistica fino ad allora avevo conosciuto solo quell'aspetto che va sotto il nome di "notte oscura della fede" (S. Giovanni della Croce), ma con un tono particolarmente volontaristico. Ora capivo che Dio, come sorgente di significato e lui stesso Significato, era veramente Dio. Senza bisogno di significato. Era l'Essere, nel mio essere e al di là dell'essere. Ed era Amore.

Questa fu una vera "conversione", un vero ribaltamento, da me, dalla mia prospettiva, dal mio io, all'unico, vero "punto fermo del mondo che ruota" (T. S. Eliot). Si tratta di un radicale cambiamento di "sensibilità interna", di "sensazioni sottili" che è difficile descrivere a parole o in termini intellettuali. Così un famoso psicologo (C. G. Jung) cerca di descrivere questo nuovo stato, e paragona l'esperienza della conversione all'esperienza di un padre quando gli nasce un figlio. Riferendosi anche all'espressione di S. Paolo: "Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me", dice:

 

Si prova in un certo qual modo la sensazione di "essere sostituiti", che non implica però quella d'"essere destituiti". E' come se la direzione degli affari della vita fosse passata a un invisibile ufficio centrale. A tale proposito non sarebbe fuori posto citare la metafora di Nietzsche: "libero nella più amorosa necessità". Il linguaggio religioso è ricco di espressioni figurate che descrivono tale sensazione di libera dipendenza, di calma accettazione. (C. G. Jung, Commento al "Segreto del fiore d'oro")

 

Soltanto ora uscii dalla crisi, solo ora disponevo di un nuovo punto di vista. Ma stava dietro a tutti i punti di vista.

 

 

Pietro De Luigi

Lodi, 22/11/1995

(Per i giovani della Parrocchia di S. Maria del Sole)

 

 

 

 

POST SCRIPTUM

 

Voglio lasciare due testimonianze sull'amore, realtà di cui ho cercato di parlare anch'io, ma solo di lontano. Le approssimazioni in questo caso sono inevitabili, ma certe parole raggiungono una migliore tangenza col mistero. Il linguaggio religioso è pieno di espressioni figurate che possono descrivere tale realtà. Anche il linguaggio poetico ha una densità d'espressione altrimenti inattingibile. Si pensi al Cantico dei cantici.

Eccole.

 

"Sia nella mia esperienza di medico che nella mia vita, mi sono ripetutamente trovato di fronte al mistero dell’amore, e non sono mai stato capace di spiegare che cosa esso sia. Come Giobbe, ho dovuto mettere «la mia mano sulla mia bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò più» (Giobbe, XL, 4 sg.). Qui si trovano il massimo e il minimo, il più remoto e il più vicino, il più alto e il più basso, e non si può mai parlare di uno senza considerare anche l’altro. Non c’è linguaggio adatto a questo paradosso. Qualunque cosa si possa dire, nessuna parola potrà mai esprimere tutto. Parlare di aspetti parziali è sempre troppo o troppo poco, perché soltanto il tutto ha significato. L'amore «soffre ogni cosa» e «sopporta ogni cosa» (I Cor XIII,7). Queste parole dicono tutto ciò che c'è da dire; non c'è nulla da aggiungere. Perché noi siamo, nel senso più profondo, le vittime o i mezzi e gli strumenti dell'«amore» cosmogonico. Pongo la parola tra virgolette per indicare che non la uso nei suoi significati di brama, preferenza, favore, desiderio, e simili, ma come un tutto superiore ad una singola cosa, unico e indivisibile. Essendo una parte, l'uomo non può intendere il tutto. E' alla sua mercé. Può consentire con esso, o ribellarsi; ma sempre ne è preda e prigioniero. Ne dipende e ne è sostenuto. L'amore è la sua luce e le sue tenebre, la cui fine non può riuscire a vedere. «L'amore non vien mai meno», sia che parli con la «lingua degli angeli», o che, con esattezza scientifica, tracci la vita della cellula risalendo fino al suo ultimo fondamento. L'uomo può cercare di dare un nome all'amore, attribuendogli tutti quelli che ha a disposizione, ma sarà sempre vittima di infinite illusioni. Se possiede un granello di saggezza, deporrà le armi e chiamerà l'ignoto con il più ignoto, ignotum per ignotius, cioè con il nome di Dio. Sarà una confessione d'imperfezione, di dipendenza, di sottomissione, ma al tempo stesso una testimonianza della sua libertà di scelta tra la verità e l'errore."

 

da: C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni

 

 

Una dedica a mia moglie

 

A cui devo la gioia palpitante

Che tiene desti i miei sensi nella veglia,

E il ritmo che governa il riposo nel sonno,

Il respiro comune

 

Di due che si amano, e i corpi

Profumano l'uno dell'altro,

Che pensano uguali pensieri

E non hanno bisogno di parole

E si sussurrano uguali parole

Che non hanno bisogno di significato.

 

L'irritabile vento dell'inverno non potrà gelare

Il rude vento del tropico non potrà mai disseccare le rose

Nel giardino di rose che è nostro ed è nostro soltanto

 

Ma questa dedica è scritta affinché altri la leggano:

Sono parole private che ti dedico in pubblico

 

da: T. S. Eliot, Poesie

 

 

 

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